Non siete ancora stanchi di NFL? Non vi ho ancora stufato? Allora proseguiamo con le news e alcune indiscrezioni sulle 8 squadre rimaste in gara per il Superbowl e di come si stanno preparando a queste semifinali di conference.
DENVER BRONCOS
Peyton Manning, diciotto mesi fa, è arrivato a Denver per un motivo molto semplice, pressoché palese: vincere un Super Bowl con i Broncos. Tutto il resto, ovvero il prolungamento della carriera dopo l’addio ai Colts e la voglia di dimostrare l’integrità fisica dopo l’intervento alle vertebre del collo, non era altro che propedeutico al traguardo finale, al quale tra l’altro Denver non arriva dal 1999, anno del secondo titolo vinto dalla squadra guidata da John Elway, che ora è dirigente e ha avuto la parola decisiva per portare in Colorado un giocatore al quale è indirettamente legato per un’antica vicenda: nel 1983, infatti, proprio Elway si era rifiutato di giocare nei Colts (all’epoca situati a Baltimore) perché troppo deboli, e i diritti su di lui erano stati ceduti a Denver, dove ha giocato per il resto della sua carriera. Il guaio dei Broncos è quello di un attacco che era già formidabile lo scorso anno ma che ebbe un solo momento di disagio nei playoff, con un intercetto lanciato proprio da Manning che diede ai Baltimore Ravens la possibilità di calciare il field goal vincente nel tempo supplementare. E in più una difesa non impermeabile: in uno dei promo in onda su Fox Sports si sente il coach John Fox (tra l’altro costretto a qualche giorno di ospedale a novembre) dire a un difensore, in sintesi, «è bello sapere che possiamo segnare tanti punti, ma sarebbe anche il caso di non costringere l’attacco a farlo ogni volta». Esatto: anche se nel recente passato hanno trionfato squadre dalla difesa sospetta (vedi Green Bay, 2010), non è mai un bene affidarsi solo alla produzione offensiva, che peraltro nel 2013 è stata da record per i Broncos. Primato NFL di punti segnati (606), di partite con almeno 50 punti (3), di giocatori con almeno 10 touchdown (5), mentre Manning, alla sua sedicesima stagione nella NFL, è diventato il quarterback con più passaggi in touchdown (55) e yard (5477) della storia. Il guaio? Tutti questi bei numeri fanno enciclopedia ma conteranno zero al momento in cui inizierà, domenica sera, la partita contro San Diego.
SAN DIEGO CHARGERS
Appunto. Così come i temi tecnico-tattici di Green Bay-San Francisco erano stati parzialmente oscurati dalla grancassa sulle condizioni atmosferiche (che pena, in Italia, sentir poi falsamente parlare di gara più gelida della storia, quando Packers-49ers è stata solo la quinta più fredda giocata a Green Bay), in questi giorni pre-Denver si è fatta molta ironia sul cravattino di Philip Rivers, il quarterback dei Chargers, che ha preso a indossare la cosiddetta cravatta bolo, quelle per intenderci che ricordano più i cowboy che gli uomini d’affari, medaglione in alto e stringhe a scendere. Rivers è un personaggio curioso: nato e cresciuto nel sud degli Stati Uniti, come è palese anche dal suo accento, si è sposato a 20 anni perché, religiosissimo, non concepiva l’idea del sesso prematrimoniale, e l’unica maniera per non cadere nel peccato era appunto quella di modificare il suo status (ora, a 32 anni, ha 7 figli, e le conclusioni le lasciamo a chi legge). Leader non sempre impeccabile, colto a dare in escandescenze a bordo campo, è però il tipo di giocatore capace di infilare con testardaggine 5-6 passaggi decisivi di fila come di non fare una piega se lo staff gli chiede di consegnare molto spesso la palla ai running back, tattica che ad esempio è servita ai Chargers in regular season per vincere sul campo dei Broncos masticando minuti (quasi 40, contro i 20 di possesso degli avversari). Al tirar delle somme, dunque, San Diego è squadra molto pericolosa per Denver, e - cravatte a parte – il concetto è stato espresso così di frequente, in questi giorni, che una vittoria dei Chargers quasi quasi non sarebbe più una reale sorpresa.
NEW ENGLAND PATRIOTS
Ultime notizie: a fare sport – ma anche ad attaccare quadri - ci si può infortunare. Poi capita che la litania degli assenti si allunghi in modo inusuale, come sta capitando ai Patriots. Squadra che gode di grande appoggio anche in Italia, grazie ai successi iniziati ormai 12 anni fa con la vittoria nel Super Bowl del 2002 a New Orleans. Arrivato il trionfo anche nel 2004 e 2005, siamo però ora a otto stagioni consecutive senza successi, con due dolorosissime sconfitte contro i New York Giants nei Super Bowl del 2008 e 2012: pochino, per una squadra guidata in maniera elasticamente intelligente da coach Bill Belichick, la cui ruvidezza esteriore maschera un amore per il football che viene dal profondo e dal passato. Nel quarterback Tom Brady, alla tredicesima stagione da titolare, Belichick ha trovato il suo prolungamento ideale in campo, ma per Brady il tempo comincia a correre un po’ troppo in fretta, e questi playoff rappresentano un punto potenzialmente contraddittorio per lui e per la squadra: da un lato, infatti, i Pats hanno già compiuto un’impresa a qualificarsi ancora per i playoff nonostante la perdita di Rob Gronkowski e Aaron Hernandez, il primo per l’ennesimo infortunio e il secondo per pesantissimi guai con la giustizia, dall’altro questa non può essere una scusa valida, perché gli infortuni sono una variabile sempre presente, anche se nel caso specifico più che il numero conta il peso tattico e morale dei giocatori colpiti, tra cui pilastri difensivi come Will Wilfork, Jerod Mayo, Brandon Spikes, ultimo a finire ko proprio questa settimana.
INDIANAPOLIS COLTS
La parola “predestinato” è pericolosissima in ogni ambito. Non solo sportivo. Chi ne viene caricato si trova a dover inseguire il successo senza margini di fallimento, senza poter cambiare strada, senza potersi voltare indietro. Vinci, ed era tutto chiaro fin dall’inizio. Non vinci, e sei un disgraziato che ha calpestato quel che la natura, la genetica e l’opinione pubblica hanno apparecchiato per te. Andrew Luck, quarterback dei Colts, è in una condizione molto simile a quella descritta. Figlio di un quarterback non memorabile, cresciuto in giro per il mondo (scuole medie a Londra, dove cementò il suo amore per il calcio), andato al college a Stanford dove innaffiano giovani e ne ricavano grandi studenti e – spesso – ottimi giocatori, Luck ha sostituito lo scorso anno ai Colts Peyton Manning senza perdere il sonno ma solo una partita di playoff, solo però dopo averli conquistati alla prima stagione assoluta da professionista. Il bis quest’anno, e sabato scorso il bizzarro 45-44 sui Kansas City Chiefs, con rimonta dal 10-38 nel terzo quarto, buona prestazione ma anche alcuni errori ascrivibili – si dice così, no? – alla scarsa esperienza (poi per chi li commette da esperto si troverà un altro cliché). Inevitabili due dolorosi tormentoni: quelli appunto su Luck – nomen omen – come predestinato in grado di trasmettere tale aura ai compagni, per osmosi (e più prosaicamente con i lanci) e quelli sul confronto a distanza con Ton Brady, che in realtà non andrebbe nemmeno posto visto che i due non hanno nulla in comune. Brady, per dire, entrò nella NFL come sesta scelta, e divenne titolare solo due anni dopo a causa dell’infortunio del titolare Drew Bledsoe, mentre Luck nel 2012 è stato il primo giocatore scelto nel draft ed era titolare già al momento di infilarsi in testa il cappellino con il simbolo del ferro di cavallo. Il vantaggio che Luck ha è però palese: una sconfitta non lo danneggerebbe in nulla, finirebbe nell’archivio alla voce “esperienze da cui bisogna passare” e risulterebbe comunque in un progresso rispetto allo scorso anno. Se Luck vincerà prima o poi un Super Bowl nessuno sarà particolarmente sorpreso. Dovesse vincerlo adesso, allora sarebbe un altro discorso. Ma non ha pressioni addosso, se non quella autogenerata, la voglia di vincere.
SEATTLE SEAHAWKS
A metà stagione era, con Denver, la squadra più in forma, più lanciata, più solida, nonostante qualche problema nella linea di attacco, ovvero il reparto incaricato di proteggere il quarterback quando lancia e aprire la strada ai running back che corrono con la palla. Il quarterback (qb) medesimo, Russell Wilson, non ha mai accusato quello che secondo il luogo comune dello sport americano viene chiamato sophomore slump, ovvero il calo della seconda stagione che viene spesso mostrato da chi si è comportato meglio del previsto nell’anno di debutto. In dicembre i Seahawks hanno perso qualche colpo, oltre che il cornerback Brandon Browner, sospeso per assunzione di sostanze illegali, ma restano una squadra versatile, potente, capace di segnare in ogni momento grazie anche al running back Marshawn Lynch. Con una difesa orgogliosa e reattiva ma costretta ultimamente a utilizzare troppi incalzi in ruoli decisivi come i defensive back, in parole povere quelli che difendono sui lanci. Resta dalla loro un fattore campo più pesante della media, per quel che conta. Il perché lo vediamo tra poche righe.
NEW ORLEANS SAINTS
A conferma del fatto che le cabale contano solo finché non vengono smantellate, e dunque contano zero, i Saints non avevano mai vinto una partita di playoff in trasferta nella loro storia, e lo hanno fatto sabato a Philadelphia in un ambiente che si pensava ostile dal punto di vista climatico, ancor più per chi normalmente gioca al coperto. Problemi, in realtà? Nessuno, su quel fronte. La trasferta a Seattle pone dilemmi di altro tipo: non il gelo o la neve, anche se il clima sarà freddo, ma il baccano di uno stadio che tra quelli della NFL è il più ‘europeo’ come scenario. Al di fuori, ad esempio, i parcheggi non sono adiacenti ma lievemente lontani, e gli immediati dintorni del CenturyLink Field brulicano così di gente come può capitare di vedere in uno stadio di calcio dalle nostre parti o, meglio, in Inghilterra o Germania. All’interno, il pubblico è noto come “il dodicesimo uomo”, ma se l’appellativo è semplice autocelebrazione propagandistica la realtà parla di un tifo che spesso mette in difficoltà gli attacchi avversari nel momento in cui il qb deve chiamare gli schemi o le modifiche, e non riesce a farsi sentire: dal 2005 in poi al CenturyLink Field le cosiddette ‘false partenze’ cioè le penalità in cui incappa un giocatore di attacco che si muove prima del dovuto proprio perché non sente le chiamate del qb, sono state 130, ovvero 15 in più rispetto allo stadio secondo in questa graduatoria. Aiuta anche la conformazione dello stadio, con tribune più a ridosso del campo e ripide che nella maggioranza degli impianti. È per questo che da sabato sera, terminata la partita a Phila, i Saints si sono preparati in maniera speciale, cercando di ricostruire a casa loro l’ambiente che troveranno: con l’utilizzo – rituale per ogni squadra – di casse stereo per diffondere una simulazione di baccano dei tifosi e addirittura con la scelta di dipingere l’emblema dei Seahawks sul proprio campo di allenamento. Tutte cose inutili, ovviamente, se la squadra guidata da Drew Brees in sé non avesse le doti per vincere a Seattle. E le ha.
CAROLINA PANTHERS
Squadra che la NFL potrebbe eleggere a proprio manifesto, volendolo. La lega, infatti, è caratterizzata da un estremo equilibrio e dalla possibilità per ogni team di migliorare (o peggiorare) radicalmente il proprio rendimento da un anno all’altro, con le manovre giuste. Dodici mesi fa si riteneva il coach, Ron Rivera, un miracolato per essere riuscito a salvare il posto con un buon finale di stagione. Ora, i Panthers entrano nei playoff con una carica che non si vedeva da una decina di anni, da quando cioè Carolina andò vicinissima a battere New England nel Super Bowl. Le risorse ci sono: un ambiente caldo e non più abituato a immaginarsi determinati traguardi, un qb (Cam Newton) mai pienamente accettato dal grande pubblico NFL come di alto livello e però pericoloso sia nei lanci sia nelle corse e una difesa commovente, a volte, per la pressione che esercita sugli attacchi avversari con gli uomini di linea, e per la presenza di linebacker di grande valore, tra cui il giovane Luke Kuechly e l’esperto Thomas Davis, tornato in campo nel 2012 dopo avere subito ben TRE rotture del medesimo legamento crociato anteriore del ginocchio in due anni. Era successo anche due mesi fa proprio nella vittoria a San Francisco: che non fa testo in proiezione playoff, perché due mesi sono un tempo lunghissimo nella NFL e quel giorno c’erano assenze e uno stato di forma differente, ma che aveva a suo modo certificato che Carolina edizione 2013 non era più squadra da afflosciarsi in partite difficili.
SAN FRANCISCO 49ERS
Finalisti lo scorso anno, costretti dalle regole del tabellone dei playoff a giocare in trasferta la prima partita contro una squadra che in regular season aveva vinto meno di loro, i 49ers hanno tutto quello che serve per tornare al Super Bowl, specialmente in serate come quelle di domenica scorsa, in cui il quarterback Colin Kaepernick mostra di poter essere di piuma – quando lancia – e di ferro, quando corre, anche se togliendo le 4 clamorose gare contro i Packers nelle ultime due stagioni la sua media di yard su corse è appena di 30 a partita. Di fatto, Carolina-San Francisco è affascinante non solo guardando al quadro generale – in fondo, la vincente sarà poi a una sola partita di distanza dal Super Bowl - ma anche nello specifico di un duello a distanza tra due qb dalla doppia dimensione di gioco, e a cui dunque le difese devono prestare attenzione diversa rispetto, per dire, a un Peyton Manning che mette il pallone sotto il braccio e corre personalmente solo in casi eccezionali, così poco numerosi da essere ricordati tutti a memoria. Kaepernick sembra più incisivo di Newton, ed ha una linea di attacco poderosa a proteggerlo: ma se il football si riducesse al confronto tra quarterback non sarebbe il meraviglioso sport di squadra che è. Dunque, occhio.
1 commento:
dopo queste indiscrezioni Rivers avrà qualche tifoso in più sicuramente (almeno per la stima)
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