Dall'articolo sul forum Dragonslair: I giochi di ruolo e la storia: lo spiegone di greymatter
La storia che non c’era
Verso la metà degli anni ’70, due tizi chiamati Gary Gygax e Dave Arneson misero assieme le loro idee e crearono Dungeons & Dragons, il primo gioco di ruolo. Gygax contribuì attraverso le regole di Chainmail, un wargame medioevale con elementi fantasy (molto inusuale per l’epoca) creato traendo ispirazione da idee che circolavano all’epoca tra gli appassionati di wargaming. Arneson fu quello che innestò il concetto di roleplaying vero e proprio sulle regole di Gygax, trasformando Chainmail nel primo gioco di ruolo in assoluto. Il successo di questo strano gioco innovativo fu enorme, e D&D si diffuse rapidamente negli USA attraverso il passaparola.
In questi primi anni, il gioco di ruolo era in fase embrionale, e abbastanza diverso da come siamo abituati a pensarlo oggi. Tanto per cominciare, era probabilmente giocato in modo simile a come oggi giocheremmo un boardgame. Il focus del gioco era il dungeon crawl o l’esplorazione di un’area: i personaggi tipicamente esploravano un dungeon con lo scopo di recuperare il tesoro, ammazzando o meno dei mostri nel processo. Poi c’erano parecchi più giocatori. Un documento affascinante è contenuto in questo PDF di 80 pagine, che dettaglia una campagna di D&D nei primi anni ’70, Rythlondar. Si può vedere che ciascuna spedizione nel dungeon aveva 7-12 giocatori, con tassi di mortalità altissimi per gli standard odierni. Inoltre il gioco aveva aspetti competitivi: c’erano ad esempio tornei di D&D, con vere e proprie condizioni di vittoria. C’era anche un rapporto diverso tra GM e giocatori, fatto più di antagonismo che di collaborazione. Questo rapporto era parzialmente basato sull’idea che il GM fosse una sorta di signore assoluto del gioco, e fosse quasi in competizione con i giocatori: “As the DM, you have to prove in every game that you are still the best. This book is dedicated to helping to assure that you are.” – Dungeon Master’s Guide di AD&D 1e (1979)
All’epoca non c’era nemmeno l’idea che i personaggi fossero “eroi”/”protagonisti” di una storia, o che i combattimenti dovessero essere “bilanciati”, o altra roba che oggi è data abbastanza per scontata: i combattimenti erano brutali, mentre i personaggi erano spazzatura, non contavano niente, e morivano come mosche. Venti anni più tardi sarebbe partito un movimento di player empowerment che avrebbe riequilibrato il rapporto GM-giocatori, promuovendo l’idea che i personaggi dei giocatori sono eroi/special snowflake/protagonisti di una storia. In certi casi questo riequilibrio si sarebbe spinto fino a strappare il controllo narrativo dalle mani del DM, per conferirlo ai giocatori.
Le avventure del D&D degli anni ’70 seguivano questo modello di gioco. Partivano tutte da premesse simili (i personaggi sono avventurieri alla ricerca di fama e ricchezze/c’è un oggetto o una persona da recuperare/etc), e consistevano in luoghi da esplorare – dungeon o zone selvagge. Il concetto di una storia o una trama era sostanzialmente sconosciuto, e lo sarebbe stato fino alla fine degli anni ’70. Per esempio, la prima avventura vera e propria per D&D, Palace of the Vampire Queen (1976) era un megadungeon. Idem per molte avventure storiche di quegli anni: In Search of the Unknown (1978), Expedition to the Barrier Peaks (pubblicata nel 1980 ma concepita nel 1976), o The Lost Caverns of Tsojconth (concepita nel 1976 e poi pubblicata, in versione espansa, nel 1982).
L’idea che in una avventura ci potesse essere una trama si è sviluppata gradualmente. Uno dei primi esempi è stato il ciclo di avventure iniziate con la serie G1: Steading of the Hill Giant Chief, G2: Glacial Rift of the Frost Giant Jarl, e G3: Hall of the Fire Giant King (1978), ripubblicate poi come G1-2-3: Against the Giants. In questi moduli ancora non c’era una storia: i singoli moduli erano sempre i soliti dungeon da esplorare, lo standard per i moduli dell’epoca; però c’era una sorta di trama di fondo che collegava i tre moduli tra loro e faceva da (esile) filo conduttore. Queste tre avventure furono poi ripubblicate, insieme ad altre, in un unico “supermodulo” (oggi diremmo: adventure path) col nome di GDQ1-7: Queen of the Spiders. Questo supermodulo univa la serie G1-2-3, la serie D (D1 Descent into the Depths of the Earth; D2: Shrine of the Kuo-Toa; D3 Vault of the Drow) e Q1: Queen of the Demonweb Pits. Questo ciclo di avventure comunque non era niente di rivoluzionario: c’era sì una trama rudimentale che collegava le varie avventure tra loro in modo che la loro successione avesse un senso, ma le avventure in sé erano sempre i soliti dungeon crawl. Notare che questo focus sul dungeon crawl non rendeva automaticamente le avventure brutte o noiose – GDQ1-7 è stata votata nel 2004 come la più bella avventura di D&D mai pubblicata. A breve, questo non sarebbe più stato vero.
Entrano in scena Tracy e Laura Hickman. Tracy e Laura Hickman sono una coppia di autori (Tracy è un uomo). Tracy Hickman è famoso per aver scritto insieme a Margaret Weis i romanzi di Dragonlance; in più, ha scritto (con o senza Laura) diversi moduli per D&D, tra i quali la celeberrima I6: Ravenloft. I coniugi Hickman hanno ricoperto un ruolo fondamentale nella storia dei giochi di ruolo: sono gli autori dei moduli originali di Dragonlance, il primo dei quali fu DL1: Dragons of Despair. Era il 1984, e da allora niente fu più la stessa cosa.
L’elemento rivoluzionario che i moduli di Dragonlance introdussero, cambiando per sempre il modo in cui i giochi di ruolo erano visti, era in realtà molto semplice, e probabilmente sapete già di che si tratta: i moduli di Dragonlance avevano una storia. Intendo una trama vera e propria, come quella di un libro o un film. Questo elemento oggi non sembra niente di speciale, ma per l’epoca fu una rivoluzione. Immaginate giocatori di D&D per i quali “avventura” era stato fino a quel momento sinonimo di “dungeon crawl” – e immaginare di dare a questi giocatori un modulo che non riproponeva il solito dungeon, ma una storia emozionante, come quella di un libro. La gente rimase folgorata. I moduli di Dragonlance furono uno dei grossi punti di rottura nella storia di D&D e più in generale dei gdr: introdussero l’idea che ci potesse essere una trama in un gioco di ruolo.
La seconda edizione di AD&D (1989) abbracciò completamente questa nuova prospettiva: le regole erano rimaste molto simili a quelle di AD&D 1e, ma nei manuali c’era una nuova enfasi sulla storia. Ci fu uno stacco molto forte tra le avventure pubblicate nell’era pre-AD&D 2e e quelle del periodo post-AD&D 2e, ricordate per le loro ricche trame, così come per l’imbarazzante railroading che promuovevano (ci torneremo dopo). Badate che questa non è archeologia – questo è un trend che continua tutt’ora.
Sarò onesto: a dire il vero non fu tutta colpa di Dragonlance. C’era comunque aria di cambiamento in quegli anni. Per esempio, qualche anno prima di Dragonlance, nel 1981, fu pubblicato Call of Cthulhu, che contribuì a cambiare il modo in cui i giochi di ruolo erano visti. Non solo adattò il gdr ad un nuovo genere, quello dell’horror, ma fu anche un gioco che cambiava il classico concetto di avventura dall’esplorazione di un dungeon alla risoluzione di un mistero. Tra il 1980 ed il 1982 fu rilasciata la trilogia di Zork, uno dei primi giochi per computer con qualcosa che assomigliasse ad una storia (sebbene abbastanza rudimentale). Nel 1985 venne pubblicato Pendragon, un altro gioco di ruolo piuttosto story-focused per l’epoca. Insomma, le cose stavano cambiando, e probabilmente sarebbero cambiate lo stesso anche senza quei fatidici moduli dei coniugi Hickman. Vorrei anche sottolineare che questo cambiamento non è stato improvviso, come può forse sembrare leggendo questo post; l’introduzione della storia è stata un processo graduale. Il modulo I6: Ravenloft (1983) era sì un enorme dungeon, ma anche lì c’era una specie di storia che faceva da sfondo. Tuttavia, oggi ricordiamo i moduli di Dragonlance come lo spartiacque tra il vecchio modo di concepire il gdr, ed un nuovo modo, in cui la storia era in primo piano.
A questo proposito, ci sono due gruppi di persone che arriveranno ad odiare questo nuovo modo di concepire il gdr, per ragioni opposte. Uno di questi due gruppi lo incontreremo più avanti, tra una quindicina d’anni (siamo sempre a metà degli anni ’80) – ma l’altro possiamo presentarlo adesso. Sto parlando dei fan del D&D delle origini, il D&D dei dungeon crawl senza storia. Questi fan vissero la nuova attenzione alla storia come un tradimento dello spirito originario di D&D, guardando i moduli di Dragonlance, il focus sulla storia, e le nuove edizioni di D&D con sospetto o aperto disprezzo. Questi giocatori talvolta si autodefiniscono grognard. Alcuni sono vecchi wargamer, mentre altri sono semplicemente giocatori appartenenti alla “vecchia guardia”: giocatori che continuano a ritenere le vecchie edizioni, e lo spirito originario del gioco che le contraddistingue, come l’epoca d’oro di D&D. Sono giocatori che rifiutano l’idea che si giochi di ruolo per raccontare una storia, in contrapposizione ai giocatori “new school”, e che spesso guardano con disprezzo certi elementi del fenomeno del player empowerment.
Negli ultimi anni (soprattutto a partire dal 2008/2009) c’è stato un rinnovato interesse per il modo di giocare della “vecchia guardia”, che si è consolidato in un movimento/scuola di pensiero noto come OSR. L’acronimo è definito in maniera imprecisa, ma la maggior parte delle persone legate all’OSR vi diranno che sta per Old School Revival, oppure Old School Renaissance. In pratica, il termine è oggi utilizzato per indicare un gruppo abbastanza eterogeneo di gdr e la ‘scuola di pensiero’ ad essi collegata, il cui comune denominatore è il rifarsi, sia come regolamenti che come filosofia di gioco, alle vecchie edizioni di D&D. Nell’ambito dell’OSR, i moduli di Dragonlance sono visti come una disgrazia.
Ma insomma, questa “storia” di cui
parli… che roba è alla fine?
Questo è un momento buono come un altro per parlare un attimo di questa famosa “storia” che sarebbe entrata a far parte della cultura del gdr a partire dalla metà degli anni ’80. In effetti uno dei problemi nel parlare di questa roba è che “storia” è un termine impreciso, e persone diverse intendono cose diverse.
Certo, certo, è vero – la storia, in senso lato, c’è sempre. È tutto ciò che succede in gioco. In senso lato, anche un dungeon crawl finisce in qualche modo per avere una storia. In un dungeon crawl succedono delle cose, e alla fine è possibile ricostruire una sequenza di eventi coerente. “Siamo scesi al secondo livello del dungeon, abbiamo ammazzato tre goblin, e Bob il Guerriero è stato fritto da una trappola”.
Però in questo post, con storia, intendo qualcosa di più di una sequenza di eventi coerente – intendo una storia appassionante, cioè una storia in grado di appagare dal punto di vista drammatico; una sequenza di eventi in game in grado di essere appassionante e interessante, come le trame che si sviluppano nei libri, nei film o nei fumetti. Una storia di questo tipo solitamente ha una struttura o comunque un arco narrativo: un inizio (un problema, un conflitto, un dramma), uno svolgimento, e una conclusione. Probabilmente ha anche elementi in grado di farti venire voglia di vedere come va a finire (non so – colpi di scena, misteri che vengono svelati pian piano…).
Ora, in un gioco di ruolo tradizionale, ci sono due modi fondamentali per avere una storia appassionante. Uno è avere la storia appassionante già scritta, e l’altro è improvvisarla. A prescindere dall’approccio che si preferisce, nei giochi tradizionali è tipicamente possibile un gioco di tipo immersivo, in cui il giocatore può vivere una storia in prima persona, esercitando una influenza sullo sviluppo della stessa paragonabile a quella che potrebbe esercitare una persona reale nello sviluppo della propria vita. In pratica, il giocatore ha controllo esclusivamente sulle azioni del proprio personaggio, ma non, ad esempio, sull’ambiente o su i PNG. Dopo vedremo quali sono i gdr “non tradizionali”, il cui approccio è molto diverso.
L’approccio “storia appassionante già scritta” è quella che adottano molti moduli pubblicati a partire dall’era di AD&D 2e fino ad oggi (es. molti Adventure Path per Pathfinder). Il processo è più o meno lo stesso, sia che la storia appassionante venga tratta da un’avventura pubblicata, sia che la scriva il DM di sua mano: c’è una serie di eventi che si verificano in successione, in modo più o meno lineare. La storia è appassionante perché gli eventi prestabiliti fanno sì che lo sia.
Esempio banale: un vecchio misterioso si avvicina ai personaggi e chiede loro di recuperare la Spada Infuocata dalla Tomba del Guerriero Misterioso prima che se ne impadronisca Lord Morte, il Necromante Oscuro. I personaggi accettano. I personaggi recuperano la Spada e tornano dal vecchio misterioso. Ma, attenzione! C’è un colpo di scena! Il vecchio misterioso è in realtà Lord Morte sotto mentite spoglie! Dopo un monologo ad effetto, Lord Morte fugge con la Spada. Nella prossima avventura i personaggi dovranno inseguirlo! Zan zan zan!
Questa trama nella sua semplicità è interessante – c’è un colpo di scena. Mi immagino il DM che si sfrega le mani tutto soddisfatto, gongolando al pensiero della faccia che faranno i giocatori quando giocheranno alla sua fantastica storia. C’è però un grosso, grossissimo problema con questo approccio. In un libro, lo scrittore è in grado di produrre una storia interessante perché controlla contemporaneamente protagonisti, antagonisti, personaggi secondari e tutto quello che succede. In un gdr non funziona così. Non dovrebbe funzionare così. In un gdr, se il DM vuole produrre la storia interessante, ha un grosso ostacolo davanti a sé. Si ritrova a essere uno scrittore con le mani legate, che non controlla i protagonisti della sua storia.
La storia di cui sopra è fragile, come quasi tutte le storie prestabilite a tavolino. Cosa succede se i personaggi decidono di tenersi la Spada Infuocata, o di venderla, invece di riportarla al vecchio misterioso? Cosa succede se uno dei giocatori in qualche modo scopre, per esempio, che il vecchio misterioso ha un allineamento malvagio e si insospettisce? Ve lo dico io: la storia salta. Tutta la bellissima storia concepita dal DM a casa sua, dopo ore di faticosa preparazione, crolla come un castello di carte. C’è un modo di dire nella comunità dei gdr che più o meno recita: “no plan survives first contact with the players“. Allude al fatto che qualunque trama predisposta a tavolino dal DM finirà per crollare rovinosamente una volta arrivata al tavolo, perché i giocatori faranno qualcosa al di fuori dei suoi piani. Il povero DM quindi si trova ad avere un problema. Vuole inserire la sua storia appassionante nella campagna; ma la sua storia, essendo predeterminata, non reggerà mai al tavolo di gioco, a causa dell’imprevedibilità legata alla libertà d’azione dei giocatori. (Notare che questo problema è direttamente o indirettamente la conseguenza di idee che risalgono alla metà-fine degli anni ’80, quando Dragonlance ha messo in testa alla gente l’idea sciagurata che per fare bene il DM uno deve raccontare una storia interessante come quella di un film o un libro.)
Come rispondere a
questo problema?
Ci sono diverse reazioni possibili. Alcune di queste reazioni sono sane, altre sono patologiche. Le risposte patologiche più comuni sono barare e railroadare i giocatori.
Il railroading (da railroads, che letteralmente sono i binari del treno) è un fenomeno che avviene quando un evento del gioco ha un outcome predeterminato – cioè un esito stabilito a priori, a prescindere delle azioni dei giocatori. Il DM annulla la libertà d’azione dei giocatori, forzando quello che succede nel gioco, al fine di far andare le cose come vuole lui.
Che vuol dire in pratica? Diciamo che in gioco si verifica una situazione X. Per esempio: i personaggi sono nella principale cittadina del regno, e per andare avanti con la storia, devono parlare con il Re che si trova nel palazzo reale. Questa di per sé è una situazione aperta: la storia preparata dal DM prevede che i giocatori parlino col Re, ma i giocatori potrebbero fare potenzialmente qualunque cosa, incluso non parlarci affatto. Il railroading avviene quando il DM ha stabilito come questa situazione andrà a finire, e impone l’esito da lui deciso a prescindere da cosa fanno o non fanno i giocatori.
Giocatore:
“No, io con il Re non ci voglio parlare! Esco dalla città e vado a cogliere le
margherite nei campi.”
DM: “No, non puoi. Hanno chiuso le porte e
non fanno più passare nessuno.”
Qualcuno potrebbe dire “eh vabbé, ma questo DM è un pivellino! Un bravo DM asseconda il giocatore e trova il modo di farlo parlare lo stesso con il re.” Per esempio:
Giocatore:
“No, io con il Re non ci voglio parlare! Esco dalla città e vado a cogliere le
margherite nei campi.”
DM: “Ok. Vai fuori dalla città e raccogli
3d6 margherite. Dopo un paio d’ore, vedi il Re che sta uscendo a
cavallo dalla città. Appena ti vede si dirige verso di te.”
Ecco: qui c’è un equivoco. Non c’è molta differenza tra il railroading spudorato del primo esempio e il railroading occulto del secondo esempio (talvolta chiamato illusionismo). Non è che quello del secondo esempio è un DM più bravo, o un DM più esperto.
Il DM qui ha solo riaggiustato la sua trama lineare (evento A -> evento B -> evento C) in modo da dare l’impressione che l’avventura non sia sui binari, ma è un cambiamento cosmetico. In realtà è più o meno la stessa cosa: il DM ha deciso che le cose devono andare in un certo modo, e qualunque cosa voglia fare il giocatore, il DM trova il modo di far succedere le cose che voleva. L’unica differenza è che se va tutto bene il giocatore non se ne accorge. E i giocatori si accorgono di questi trucchetti molto più spesso di quanto il DM pensi.
Diciamo che ci sono tre percorsi che conducono dal Luogo A al Luogo B. Se i tre percorsi sono esattamente uguali, ed i personaggi subiscono la stessa imboscata indipendentemente dal percorso preso, con gli stessi mostri, etc. etc… beh, non è molto diverso dalla situazione in cui c’è un solo percorso obbligato. Dai l’illusione della scelta, ma è solo una finzione.
Il railroading (spudorato od occulto) è in genere malvisto perché annulla la libertà d’azione e di scelta dei giocatori, visto che quello che fanno o non fanno non ha più alcuna conseguenza né alcun impatto su quello che succede. Se rimuovi la libertà d’azione togli una delle cose fondamentali che distinguono il gdr da altre forme passive di intrattenimento (cinema, teatro, libri, fumetto, etc): la capacità di influenzare ciò che succede. Il gioco di ruolo diventa un’esperienza passiva, dove il fruitore esperisce una storia predeterminata da altri. A quel punto, tanto vale rimettere i dadi nello zaino e stare a sentire il GM che ti legge un racconto scritto da lui, no?
Tuttavia, se è vero che il railroading è generalmente malvisto, ci sono dei casi in cui può funzionare e può essere desiderabile – cioè quando è funzionale al divertimento del gruppo. In generale, quando si gioca di ruolo la priorità è divertirsi – finché uno si diverte, sta giocando bene. Se uno gioca di ruolo senza divertirsi, fategli i complimenti: è riuscito a scoprire l’unico vero modo per farlo male!
Ecco, alcuni giocatori preferiscono avere una storia da cui farsi guidare. Magari vogliono esperire una storia appassionante predeterminata in modo semi-passivo, senza dover fare troppe scelte. Si aspettano una storia, e fanno del loro meglio per seguirla; quando non la seguono, si aspettano che il DM li rimetta sulla strada. Questo è talvolta chiamato partecipazionismo, nel senso che i giocatori partecipano volontariamente alla storia creata dal DM (anziché subirla). C’è partecipazionismo, se vogliamo usare questo termine, quando i giocatori: a) sono consapevoli che c’è una storia prestabilita da seguire; b) sono d’accordo che ci sia questa storia; c) riconoscono che gestire la storia è responsabilità del DM; e infine d) sono d’accordo che il DM faccia il necessario per far sì che la storia vada avanti.
Questo, se ci pensate, è quello che succede, per esempio, quando i personaggi accettano il lavoro proposto loro dallo straniero misterioso alla locanda. Non c’è alcun motivo sensato per cui delle persone sane di mente debbano accettare un incarico da un tizio mai visto e conosciuto – però in genere i personaggi accettano il lavoro senza tante storie, perché sanno che l’avventura “è da quella parte”.
Ora, questa situazione va bene. La situazione che viene criticata è quando il DM pensa di sapere cos’è meglio per il divertimento del gruppo senza consultarsi prima con i giocatori, per cui decide autonomamente di scrivere la storia predeterminata senza che nessuno glielo abbia chiesto. Se invece i giocatori esprimono il desiderio di avere la storia predeterminata, è un altro paio di maniche. In certi gruppi storici, che giocano insieme da anni e anni, questo consenso può essere implicito: il DM ormai conosce i giocatori e sa cosa li diverte, mentre i giocatori conoscono il DM e sono d’accordo con il suo stile. Tuttavia, a meno che non rientriate in questo caso, è meglio se questi aspetti vengono decisi dall’intero gruppo prima dell’inizio della campagna (“ragazzi, avevo in mente una campagna con una storia ambientata in X che sarà così e cosà, vi va bene?”). [E qui si torna alla Dichiarazione d’Intenti. NdM]
Barare non ha bisogno di molta discussione: stai barando quando ignori arbitrariamente una regola, o il risultato di un dado, perché non ti piace la situazione a cui quella regola o quel tiro di dado ti porterebbero, e questo avviene in segreto, senza che i giocatori ne siano al corrente. La maggior parte dei DM che barano lo fanno con buone intenzioni: salvare personaggi che morirebbero per tiri sfortunati, non penalizzare serate sfortunate con i dadi, ignorare tiri non utili alla storia o al divertimento, far sì che il combattimento con il boss non finisca in un solo round, e così via. In generale, nella maggior parte dei casi i DM che barano lo fanno per esigenze di storia. Ma questo non vuol dire che sia una buona abitudine.
Il punto è che se hai bisogno di barare per ottenere quello che vuoi da un sistema, c’è qualche problema di fondo – evidentemente vuoi fare qualcosa, ma le regole ti remano contro e portano a risultati che non ti piacciono. E se non ti piace un risultato, perché usare delle regole che ti portano a quel risultato? Le risposte sane a questa situazione sono a) adattare le tue aspettative al sistema; b) modificare il sistema in modo che venga incontro alle tue aspettative (= house rules); c) se il compito precedente è troppo laborioso, al limite cambiare sistema. Barare è una risposta al problema forse più semplice, ma è patologica perché implica ingannare gli altri giocatori (sì, se tiri dei dadi e poi ignori il risultato, li stai ingannando).
Per chi bara, il dado finisce per divenire una cosa cosmetica – tanto se le cose non vanno come avevi pianificato, lo ignori. E se ignori i tiri di dado quando ti fa comodo, non capisco come mai stai tirando dei dadi. “Se faccio >10 col dado accetto il risultato, se faccio meno non è funzionale alla storia per cui facciamo finta di aver fatto >10 lo stesso.” In generale, secondo me non si dovrebbe tirare un dado se non si è pronti ad accettarne il risultato. Fare diversamente mi sembra un comportamento un po’ schizofrenico.
Come il railroading, anche il barare è generalmente malvisto, però ci sono situazioni in cui barare è ok. Più o meno sono le stesse situazioni in cui il railroading è ok: cioè quando i giocatori sono consapevoli che il barare rientra tra le cose che il DM potrebbe fare, e sono d’accordo. In questo caso nessuno viene ingannato, dunque non c’è nessun problema. Questo consenso dovrebbe sempre essere esplicito, con l’eccezione dei gruppi molto rodati che giocano insieme con soddisfazione da parecchi anni, in cui questo consenso può essere implicito. Di nuovo, ciò che viene generalmente criticato è il DM che si arroga il diritto di decidere per conto suo cosa è meglio per il divertimento del gruppo, perché è un atteggiamento paternalistico. Alcuni giocatori potrebbero non apprezzare l’idea che il DM bari per salvarli o per mandare avanti la storia in una certa direzione (io per esempio mi opporrei a una cosa del genere), quindi hanno il diritto di essere informati se questa è una cosa che può succedere.
[to be continued...]
9 commenti:
Bel Post! Siamo partecipazionisti? Io ho sempre sognato di rifiutare un ingaggio in una taverna, ma non so se è mai successo...
Dovresti farlo...
A me il railroading fa impazzire, a quel punto mi guardo il signore degli anelli.
Piuttosto è molto più utile da GM dire al tavolo: guarda, puoi metterti a fare la cosa x, ma non è interessante ai fini della giocata.
Io generalmente sono più partecipazionista, soprattutto quando c'è una bella storia di fondo, mi piace seguirne gli sviluppi. Mi sembrerebbe di rallentarne il corso altrimenti. Ed in effetti è proprio perché c'è una narrazione sotto da seguire.
In alcuni casi invece, con sistemi più liberi, anche andare fuori dai binari fa bene: per esempio, le volte che masterizzando Cthulhu siete andati per i cazzi vostri, sono state fra le scene più divertenti in assoluto!
Da master faccio outing e mi rendo conto di aver usato per tanto tempo l'illusionismo, cioè il dirigere la storia in un determinato senso con più o meno consapevolezza da parte dei pg.
Questo perché - ed è la cosa che mi piaceva dell'articolo - anch'io sono un'amante della "storia" e sono sempre stato disposto a sacrificare gli altri aspetti del gioco di ruolo. Nel proseguimento dell'articolo infatti spiega che non necessariamente lo stile "sandbox" votato alla pura e semplice esplorazione è necessariamente più divertente.
Direi però alla fine che effettivamente ci siamo sempre accordati su uno stile più partecipazionista, sapendo che se la storia invita da una parte, ha senso seguirla (anche per rispetto della sbatta del master a preparare quella storia/missione e non quella che vorrei fare io). Probabilmente la differenza fra gioco vecchia e nuova scuola è sostanzialmente qui: una storia avvincente che però ha passaggi obbligati, oppure la pura e semplice esplorazione. Questo secondo aspetto non fa parte però del nostro background di gioco, e per quanto da una parte mi piacerebbe provarlo, dall'altra mi spaventa: come master per la mole di improvvisazione, come giocatore per la possibile "piattezza" della trame.
Ultimamente però sto cercando sempre più missioni che, all'interno di un obbiettivo generale, lasciano però molto margine ai giocatori, un po' come mi pare sia stata Phandelver, in cui non vi ho mai obbligati a seguire una pista piuttosto che un'altra.
La tentazione di fare illusionismo è forte, soprattutto se la strada scelta dai giocatori costringe ad una improvvisazione massiccia cui il master magari non è abituato. Però avere dei binari, anche multipli ma comunque in numero limitato, è poco pratico secondo me (anche se al GM dà l'idea di essere efficiente in prima battuta):
1 - perché se ad esempio ci sono 3 opzioni, il master farà prep di tutte le tre opzioni, e poi magari i PG faranno qualcosa di non ipotizzato e quindi la prep va a farsi benedire;
2 - perché se il giocatore si accorge che una sua scettiche fa uscire la storia dai binari del GM viene liquidata, potrebbe rompersi le scatole di giocare su una storiagià decisa a priori (trovo assurdo in particolare il fatto che si usino dadi per rendere certi esiti aleatori, ma allo stesso tempo le scelte non siano arbitrarie).
I vantaggi, secondo me, ad avere un approccio a situazioni piuttosto che storie è:
1 - la storia emergente frutto delle idee del master e dei giocatori, e quindi la storia è effettivamente di tutti, non ci sono spettatori ma tutti diventano protagonisti (chi più chi meno, ma se non altro ne hanno la possibilità);
2 - non devo fare tanta prep e nemmeno prep inutile: mi limito a sapere cosa vogliono fare i PNG e le fazioni e ad avere un mondo reattivo alle azioni dei PG, per cui mi basta pensare cosa farebbe un PNG in risposta ad un determinato evento.
Mi rendo conto però che magari per me è più facile vederla in questo modo perché vengo da un percorso gidierristico diverso (che poi anche io sto imparando piano piano questo stile e sono lontano dall'essere bravo, ecco...).
Alla fine conta divertirsi e se uno accetta di buon grado illusionismo e partecipazionismo in favore della storia ben venga. Ma di una cosa sono molto sicuro: anche un sandbox o comunque un'avventura gestita a situazioni piuttosto che trama prefissata può essere epica e appagante e fare emergere una storia bellissima!
Sicuramente vuol dire tanto il background da giocatore. L'idea di "situazione" più che di storia prefissata piace molto anche a me e ha il sapore di un ibrido tra storia (è successo/succederà qualcosa di intrigante) e improvvisazione (i pg influenzano come si evolverà la situazione in modo unico).
Sulla zero preparazione, per me che vengo dalle "storie", mi è più facile leggermi tre possibili variazfonidel tema e poi improvvisare all'interno di quelle strade (sapendo dove comunque a grandi linee la storia deve andare a parare), che non avere nessun appiglio e dover improvvisare tutto. Ma ripeto: questione di esperienze.
L'idea per esempio di tabelle casuali è molto fica sulla carta ma, o ti devi comunque preparare prima alcuni personaggi (e allora preferisco che me li prepari qualcun altro e io li usi al volo), oppure devi perdere tempo a tirare i dadi per costruirli al volo (col rischio di "sgonfiare" la sensazione che se un PNG è lì ed è così, forse un motivo legato alla trama ci sarà...).
A Modena ho visto masterizzare una roba molto narrativa quasi tutta improvvisata. Una discreta goduria da vedere. Quoto situazioni/punti d'interesse imbastiti e storia che nasce dall'interazione improvvisata fra master e giocatori. Ma non credo sia facile da fare. Improvvisare TUTTO a tabelle al volo, invece, mi dà la sensazione di background inesistente e insensato.
Wow, che gioco era? Comunque sì, improvvisare tutto è too much anche per me, sembra dopo tutto casuale e inconsistente.
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