lunedì 21 aprile 2025

Le abilità


Ultimo articolo che rimbalzo da Dietro lo schermo, sulla mancanza di abilità nella Vecchia Scuola.

Don’t check to succeed, roll to avoid bad stuff – Non tirare per vedere se hai successo, ma per vedere se eviti cose brutte. Uno dei più frequenti mantra dell’OSR, dove in genere si esaltano tiri salvezza in contrapposizione con le più criticate prove di abilità / caratteristica.

Vorrei fare un breve discorso su questa contrapposizione, e per l’occasione riesumo questa vecchia serie.

I pregi

Per i suoi sostenitori, questo approccio serve a chiarire una volta per tutte in quali casi bisogna tirare. Secondo loro, anche se possono esserci casi in cui apparentemente un tiro salvezza e una prova di caratteristica sono simili, è importante impostare il gioco sul concetto che quello che innesca i tiri è evitare un pericolo: a quel punto ci saranno molti casi in cui, rispetto al “tipico” D&D, i dadi non verranno tirati affatto (l’esempio tipico che viene citato è quello di scassinare una porta).

In altre parole, il principale pregio è evitare tiri di dado inutili. E non si può che lodarlo! Purtroppo ho visto diverse volte giocatori che si affrettavano a tirare il dado ancora prima di aver spiegato che cosa sta facendo il PG (e aver lasciato che sia il Diemme a stabilire se serve un tiro o no, come dovrebbe essere). Così come Diemme che facevano tirare dadi per qualsiasi cosa, senza soffermarsi un attimo a riflettere su quale fosse la posta in gioco, salvo poi rimanere perplessi in caso di tiro fallito (da lì a inventarsi robe goffe come il fail forward il passo è breve).

Il criterio di cui stiamo parlando indica, invece, chiaramente quando bisognerebbe tirare il dado: solo in situazioni in cui il personaggio sta rischiando qualcosa; secondo alcune interpretazioni, solo in situazioni in cui è a rischio il personaggio stesso, la sua incolumità. In Melting Tower, ad esempio, si dice di fare un tiro salvezza “ogni volta che rischi di perdere tempo prezioso, risorse o salute tentando di compiere un’azione difficile” (come vedete, non si parla di rischiare di fallire l’azione).

Vale anche la pena ricordare che la filosofia OSR enfatizza le capacità del giocatore rispetto a quelle del personaggio, come abbiamo visto nell’episodio 4 e nell’episodio 5 di questa serie.

Per molti suoi sostenitori, addirittura, il fatto di arrivare a tirare il dado è sempre, già di per sé, una sorta di fail state, il segno che qualcosa è andato storto: lo scopo del giocatore dovrebbe essere risolvere la situazione senza arrivarci neanche, al tiro di dado. A questa cosa (su cui ho una visione un po’ critica) mi riprometto di dedicare un altro articolo in futuro. Ma credo che aiuti a spiegare il motto che dicevo all’inizio.

Infine, alcune persone con cui ho parlato hanno sottolineato come per loro sia importante che le probabilità di successo dipendano dal livello del personaggio e non dai suoi punteggi di caratteristica. I tiri salvezza delle primissime edizioni di D&D, e di molti “retrocloni” o derivati OSR, hanno proprio questa proprietà. Dare poca rilevanza meccanica ai punteggi di caratteristica (che in questi giochi, non dimentichiamolo, sono spesso altamente casuali) è visto come un modo per evitare il min/maxing (cioè la “gara” a farsi il personaggio più potente) e per evitare che i giocatori “cerchino sulla scheda” le soluzioni ai problemi, anziché ragionare col buonsenso sulla situazione immaginata.

I limiti

Evitare brutte cose (avoid bad stuff) sembrerebbe un criterio chiaro. Detto così, però, sposta solo il problema: che cosa consideriamo come brutte cose?

Se le consideriamo solo un danno diretto al personaggio (alla sua incolumità, o alla sua possibilità di agire – es. paralisi, confusione…), il perimetro è davvero chiaro ma ci perdiamo un sacco di belle situazioni di gioco: quelle in cui il personaggio lotta per evitare una cosa che non lo danneggia affatto.

Considerate questo esempio: un tesoro prezioso sta cadendo dal suo supporto e rischia di rompersi sul pavimento, e un PG vorrebbe afferrarlo al volo.

Era riferito a Cairn, gioco OSR “ultraleggero” in cui esistono solo tiri salvezza… ma legati alle tre caratteristiche. Per cui viene il dubbio, lecito, di fino a che punto siano tiri salvezza e non tiri di caratteristica. Il testo dice: to avoid bad outcomes from risky choices and circumstances, per evitare un esito negativo di una scelta o situazione rischiosa. L’esempio ci rientra?

Se applicassimo l’approccio più ristretto verrebbe da dire di no: il personaggio, di per sé, non è a rischio. Ma la situazione è obiettivamente incerta. Non sarebbe un peccato risolverla in modo automatico, con un puro sì o no deterministico? Da Diemme mi darebbe poca soddisfazione.

Qualcuno ha proposto questa soluzione: tuffandosi, il PG riesce a salvare il tesoro, ma deve fare un tiro salvezza per evitare di farsi male. Non è che sia una brutta idea, ma ci vedo un difetto: in questo modo il tesoro non è mai a rischio se il giocatore non vuole che lo sia; se il tiro va male il PG prende danni, l’incertezza si sposta tutta lì. Invece fare che, se il tiro va male, il tesoro si rompe a me sembra un ruling molto più interessante, oltre che più plausibile.

Insomma, il punto secondo me è se accettiamo l’idea che il rischio (la “brutta cosa” che succede in caso di fallimento) possa consistere in qualcosa di diverso da un danno al PG. Che possa consistere, in senso lato, nel perdere qualcosa che voleva: un danno alle sue ambizioni, diciamo così. Per i miei gusti la risposta è sì.

Alcuni hanno fatto un’altra proposta: mantenere l’incertezza ma con un tiro indipendente dalla scheda del PG, con una probabilità stabilita ad hoc dal Diemme. In Cairn questa cosa si chiama Die of Fate. In altri giochi potremmo usare un tiro percentuale, ad esempio.

Anche questo non è male in assoluto, ma ci porta a una seconda domanda: nella situazione descritta, vogliamo che le capacità del PG (il suo livello, e/o la sua Destrezza – in Cairn il livello non c’è) contino qualcosa? Di nuovo, per i miei gusti la risposta è sì.

E le risposte che Yochai Gal, autore di Cairn, ha dato a quello specifico esempio non sono molto dissimili dalle mie:

[Il PG] non è personalmente a rischio. Qualcosa che vuole è a rischio. […]

Il Warden [il Diemme, NdT] dovrebbe semplicemente “lasciare che la cosa succeda” in questo caso? O dovrebbe usare un Die of Fate? Ma usare il Die of Fate sembra ingiusto nei confronti del PG: il giocatore potrebbe sostenere che il suo background, la sua esperienza o le sue stat sono di aiuto!

Non so con certezza quale sia la risposta qui, onestamente penso che dipenda. Ma qualche volta… un tiro salvezza è richiesto, e NON a causa di un pericolo.

traduzione mia, parziale (vedi appendice per lo screenshot del testo originale)

Andiamo oltre

Credo che siamo tutti d’accordo che quando e perché si innescano i tiri sia una delle caratteristiche distintive fondamentali di un gioco di ruolo, e sia quindi importante chiarirlo bene. Come ho cercato di fare, nel mio piccolo, con la mia serie sul flusso di gioco.

Un approccio acritico al “tirare per riuscire a fare cose” (come spesso vengono concepite le prove di abilità/caratteristica) può senza dubbio portare a delle degenerazioni: tipo, casi in cui si tira anche per cose triviali, o in cui si tira ma il fallimento non ha costi né conseguenze. “Salgo le scale” – “Tira su Scalare” – “Ma sono scale normalissime” – “Tira lo stesso” – “Ops, ho fatto 1” – “Inciampi e… ehm… poi ti rialzi e ricominci a salire, tira di nuovo.

D’altra parte, anche un approccio acritico al “tirare per evitare brutte cose” non è esente da degenerazioni, anche se spesso non ci pensiamo. Immaginate: “Stai viaggiando e… a un certo punto scivoli e rischi di cadere in un burrone! Fai un tiro salvezza”. Se il Diemme mi fa piovere addosso sfighe così, di punto in bianco, e tutto quello che posso fare è affidarmi alla dea bendata per il tiro salvezza, non è che il gioco sia entusiasmante. Lo sanno bene i cultori dei Principia Apocrypha, che non a caso dedicano molta attenzione a scongiurare questa evenienza.

Ritengo che siamo abbastanza maturi per superare la contrapposizione tra “tirare per fare” e “tirare per evitare”.

Ovviamente, se la soluzione proposta dal giocatore di fronte a un problema / ostacolo è ragionevolmente sicura, credo che siamo tutti d’accordo che non serva tirare un dado.
Idem se non ha speranza di funzionare. O se può semplicemente provare e riprovare all’infinito senza alcun costo o rischio. Ne abbiamo parlato varie volte.

Ma quello che secondo me ci aspettiamo come caso tipico in cui si tira, nei nostri giochi D&D-like, è il giocatore che, pur di ottenere qualcosa di incertodecide di esporre il PG ad un rischio. Sono consapevole di essere in una situazione pericolosa (e, probabilmente, di cosa rischia di andare storto). Ho fatto tutto quello che potevo per mitigare le incertezze, ma qualcuna evidentemente rimane. Però, siccome c’è qualcosa che voglio, sfido il pericolo per provare ad averlo.

È un “tirare per fare X ed evitare Y”: la situazione è incerta, tiro, se va bene ottengo X (le conseguenze del successo, nel mio flusso), se va male subisco Y (le conseguenze del fallimento).

Esempio stupido: scalare una parete di roccia; se ho successo arrivo in cima, se fallisco cado. A questo punto, chiamarlo prova di abilità o tiro salvezza, chiamarlo tiro per arrivare in cima o tiro per evitare di cadere, è solo una questione semantica che lascia il tempo che trova.

Ha importanza se è un tiro d6 secco, o un tiro percentuale di scalare pareti, o un tiro salvezza contro paralisi, o un tiro sulla caratteristica Forza, o un tiro sull’abilità Atletica? A livello prettamente meccanico sì, certo. Ed è più che lecito avere le proprie preferenze. Ma non mi sembra una differenza così radicale. All’atto pratico abbiamo individuato la medesima incertezza, e le medesime conseguenze in caso di successo e di fallimento, quindi procediamo a tirare un dado per determinare cosa succede. Una delle tante riconferme che la grande famiglia di D&D presenta una solida ossatura di somiglianze, al di là delle differenze.

Nota finale

Considerate espressamente esclusi da tutto questo discorso i famigerati “tiri di Percezione” e affini, inclusi i tiri di conoscenza, quelli per “intuire” se qualcuno mente, e così via. Insomma, tutti i tiri che non corrispondono a una vera e propria azione del personaggio e hanno come unico effetto quello di fornire informazioni al giocatore.

Non voglio eludere l’argomento, ma va trattato a parte e ci scriverò un altro articolo. (Già questo l’avevo pensato breve ed è venuto un mattone…)

mercoledì 16 aprile 2025

Stivali d'as...salto


Dopo aver compiuto un giro di perlustrazione attorno alla villa abbandonata, decisero entrare. La porta principale era chiusa a chiave, ma Snake riuscì abilmente a forzare la serratura; tutto sembrava come era apparso dalle finestre: una casa abbandonata ricoperta di polvere e ragnatele sparse. Nel salotto 
attirarono la loro attenzione due poltrone con alcune leve sui braccioli e pile e scaffali di libri, in particolare di alchimia, metallurgia, fisica, ingegneria... Balthazar provò ad azionare qualche leva apprezzando i complicati meccanismi che reclinavano lo schienale o che alzavano i piedi, ma la poltrona si ruppe (destando il dispiacere di Snake...). Dal camino in un angolo molti tubi entravano nelle pareti come a formare un sistema di distribuzione del calore; dentro al camino della legna secca pronta per essere bruciata mostrava i segni di incuria.
Nel salone da pranzo riconobbero che il ticchettio sentito anche dall'esterno proveniva dal lampadario, un grosso lampadario di cristallo da cui uscivano molti fili che si collegavano a specchi e a lenti installati tra pareti e soffitto. Per terra un grande tappeto bianco con diverse schegge e pezzi di sedie di legno e ossa di minuscoli animali. All'improvviso un giocattolo automatico uscì dall'angolo e sparò a Snake con la sua minuscola balestra, prima di scoppiare in uno sbuffo di fumo e scintille prendendo fuoco.
Ned provò ad entrare, ma subito alcune schegge di cristallo partirono dal lampadario. Glutiniel allora, legato il suo sacco a pelo nella pertica, mossa all'interno della stanza, capirono che gli specchi fungevano da sistema di rilevamento per l'attivazione di una specie di trappola. Sul pavimento alcune curiose impronte non facilmente identificabili sembravano appartenere ad un umanoide quadrupede. La stanza però non sembrava così interessante da suscitare altra curiosità, e si diressero verso il piano di sopra.
La prima stanza che ispezionarono si rivelò la camera da letto padronale, con un grande letto a baldacchino ricoperto da una soffice trapunta e morbidi cuscini. Ai quattro angoli quattro mucchi di panni accatastati a casaccio in cui rinvennero due borse (una contenente 297 Monete d'Oro) e una trappola per topi che sembrava d'argento. Sotto il letto invece altre impronte, simili a quelle di prima ma più piccole. Dalla testata alcune leve sembravano comandare diversi meccanismi nascosti per regolare lo schienale o la chiusura dei drappi laterali, ma anche il letto, dopo che Ned provò tutte le leve, emise un secco suono meccanico e crollo sulle due gambe anteriori. Alle pareti due quadri raffiguranti due ragazzini sorridenti.
Lasciata la stanza di fronte per ultima, perché anche da essa proveniva uno strano titcchettio, Snake provò ad aprire la porta successiva che si rivelò essere la stanza da bagno: non appena aprì la porta, ne fuoriuscì un'intensa nuvola di vapore, mettendolo in guardia; un rumore di acqua corrente proveniva dall'interno. In realtà, perlustrando la stanza, il rumore era causato dalla doccia lasciata aperta (stranamente). Nella stanza una vasca con 13 vipere che parevano addormentate e con una spazzola molto rifinita sul fondo. Snake voleva aprire la finestra per eliminare il vapore, ma Glutiniel consigliò di non dare all'esterno suggerimenti sul loro operato; chissà mai che le Bambole di Pezza fossero in giro...
La porta di fronte portava ad una vera e propria officina utensile: decine di attrezzi erano posti ordinatamente sui banconi e al centro della stanza, un tavolo con un rialzo bordato di argento supportava un paio di stivali fatti di cuoio con inserti di metallo, con una suola spessa. Balthazar ne approfittò per prendere qualche attrezzo utile (all'insaputa di Snake), ma mentre i due si aggiravano per la stanza, il fantasma di un ragazzino (identico ad uno dei due raffigurati nei quadri) comparve nel corridoio e indicò un punto sopra la testa dietro alle spalle del nano e dell'elfo (che rimase molto turbato).
Entrati tutti nel laboratorio, Glutiniel - con la sua pertica - fece rumorosamente cadere gli stivali dal supporto, che sembrò rialzarsi di qualche centimetro, facendo scattare una trappola da sotto al tavolo. Una serie di dardi partì in tutte le direzioni, ma non colpirono nessuno, e così l'elfo poté indossare gli stivali.
L'ultima stanza del piano superiore era la stanza dei bambini e presentava soltanto due letti, un tappeto verde aggrovigliato a delle statuine giocattolo ed un orologio a pendolo funzionante che sembrava mostrare l'ora esatta.
Soddisfatti dell'esplorazione tornarono al piano di sotto, ma appena scese le scale Snake sentì un rumore di passi svelti che uscivano dalla porta. Si affrettarono, ma con la coda dell'occhio il ladro riuscì a vedere solo una schiena animalesca voltare l'angolo in direzione della porta posteriore. 
Intanto Glutiniel volle cercare di attivare gli stivali in vario modo, ma non appena sbatté tra loro i tacchi, schizzò in aria fino alla cima di un vicino albero, a cui si ritrovò aggrappato! Un lento ticchettio cominciò a ronzare, come a ripristinare il meccanismo...
Appena sopraggiunsero notarono la porta aperta. Nella stanza la ragnatela di fili sembrava intatta, e non appena Ned provò a sollecitarla con la spada, una forchetta si conficcò nel muro accanto. Glutiniel allora, con la sua immancabile pertica, provò a far scattare tutta la trappola (ricevendo anche una forchettata...) e riuscirono ad arrivare fino a metà stanza. Nella cucina solo un grande branco da lavoro, con posate sparse attaccate ai fili, e nel mezzo dei fili, appesa, una borsa di seta rossa di un certo peso. In fondo alla stanza una porta dava in quello che doveva essere il sottoscala, ma ad attirare l'attenzione fu il tappeto arrotolato in parte sotto cui trovarono una botola. Il nano aprì, ma sembrava un magazzino di vecchie cianfrusaglie. Balthazar allora accese una torcia e si sporse, e fra mucchi di scatoloni, vestiti e vecchio ciarpame, notò tre paia di occhi rossi...
"Chi siete?" - provò a chiedere - e riuscì a scoprire che gli occhi appartenevano a tre goblin scacciati dalla loro tribù presso il mercato, nel bosco a nord, per via della maledizione di Orla, la strega del bosco, che gli aveva trasformato la faccia in quella di topi... In cambio di tre razioni ottennero di poter dare un'occhiata nello scantinato, ma trovarono di particolare solo una scatolina con 20 denti (che sembravano dentini da latte) ed una tunica con una simbolo di una luna a falce, riposta in maniera accurata rispetto al resto.
Tornati di sopra fecero scattare anche la trappola nell'altra metà della stanza: la borsa conteneva 66 pietre preziose (da 10 MO l'una!) e Snake volle aprire la porta di quello che si confermò essere il ripostiglio: sugli scaffali numerosissime lattine, tra cui una ticchettante. Il ladro la prese e la portò fuori, giusto in tempo prima che esplodesse, rischiando di ucciderlo! Tornato dentro provarono ad aprire le altre, ma si resero conto che contenevano cibo scaduto; solo due erano più leggere, ma non ebbero il coraggio di aprirle.
Nonostante non avessero ancora combattuto, le trappole li avevano logorati, e sebbene fosse all'incirca mezzogiorno, si prepararono per tornare alla locanda.

lunedì 14 aprile 2025

Alternative al combattimento


Sempre dal blog Dietro lo schermo un altro interessante articolo sul basso power level e l'alta mortalità nell'OSR.

Il principio

Non bilanciare le sfide. Il Diemme non deve curarsi di rendere i nemici o i pericoli “equilibrati” rispetto ai PG, e i giocatori devono essere consapevoli di questo.

Più in generale, la morte dovrebbe essere un’eventualità concretamente possibile ogni volta che si intraprende un atto rischioso. Il Diemme non deve mai sforzarsi di evitare che accada e, se accade, dovrebbe essere perlopiù definitiva.

In Principia Apocrypha (uno dei testi di riferimento della Rinascita della Vecchia Scuola) si legge:

Il tuo personaggio potrebbe essere trasformato in rospo, perdere parti del corpo, essere contagiato dalla lebbra, trasformato in pietra, affetto da una maledizione che fa sputare lumache, sepolto nelle viscere della terra per diecimila anni, o semplicemente ucciso da un contadino con un colpo di forcone nelle budella. Impara ad amare i modi repellenti, orripilanti, scioccanti, sorprendenti e anche irritanti in cui i personaggi possono assaporare la sconfitta.

Una chiara differenza di approccio rispetto al D&D moderno, pieno di “eroi cinematografici”, non è vero?

La storia che c’è dietro

Ai primordi di D&D i dungeon (quantomeno, certi dungeon) erano essenzialmente delle immense trappole mortali: una lunga sequenza di modi per cercare di “fregare” e uccidere i PG. Lo erano a tal punto che, talvolta, non ci si preoccupava neppure troppo che avessero una logica (com’è arrivato lì quel mostro? che senso ha una trappola fatta così?). Era una corsa a ostacoli: l’obiettivo era arrivare al tesoro senza restarci secchi.

L’esempio forse più lampante è il celebre Tomb of Horrors, dungeon che il creatore di D&D Gary Gygax, negli anni ’70, aveva creato appositamente come “sfida estrema” per i giocatori più esperti. È concepito con assoluto sadismo, con la morte che può colpire i PG da mille direzioni inaspettate al minimo passo falso. I risultati spesso sono molto spassosi… tranne che per la vittima.

Anche senza arrivare a tali estremi, nel D&D “di una volta” era comune che un personaggio morisse, anche in modo improvviso, per un singolo errore o per pura sfortuna. Queste morti snervanti diventarono, in breve, un cliché tra gli appassionati. Il fatto che creare un nuovo personaggio fosse un’operazione semplice e rapidissima (si ripartiva rigorosamente dal 1° livello e non c’erano talenti, abilità o altre opzioni speciali da scegliere) contribuiva a mitigare la “durezza” dell’evento. E all’epoca non ci si affezionava troppo al proprio PG… se non quando si era riusciti a farlo sopravvivere a una moltitudine di pericoli, portandolo ad un alto livello. In effetti i personaggi di alto livello erano “preziosi” e molto amati proprio perché era molto difficile farli restare vivi fino a quel punto, quindi avevano più che “meritato” il loro status.

I pregi

In un gioco in cui la morte è sempre in agguato c’è più tensione, diranno i sostenitori di questo stile. Ed è innegabile: la consapevolezza di essere in pericolo tiene tutti sul chi vive.

Il fatto di non bilanciare gli scontri può essere un pregio per varie ragioni. Innanzitutto il Diemme risparmia un po’ di lavoro. In secondo luogo aumenta il “realismo” (se di realismo si può parlare in un GdR fantasy), rendendo possibile incontrare nemici di qualunque livello, a prescindere dal livello dei personaggi; diciamo che quantomeno aumenta l’imprevedibilità e i colpi di scena.

Ma soprattutto, l’alta letalità del combattimento induce i giocatori a prenderlo sul serio: come, appunto, una questione di vita e di morte, non uno “sport”. Incoraggia l’attenta preparazione prima di ogni battaglia, e l’uso di buone strategie per minimizzare i rischi.

Inoltre, in combinazione con il sistema “oro = PE” che abbiamo visto nell’episodio scorso, induce i PG a cercare alternative al combattimento ogni volta che è possibile, tenendolo come ultima risorsa. Il che è una bella cosa perché fa lavorare il cervello; evita che i PG si trasformino in macellai, e i dungeon in una noiosa sequenza di tiri per colpire e danni.

Aggiungerò un’altra cosa: l’alta letalità induce a uno scarso attaccamento dei giocatori ai loro PG, almeno all’inizio. So che vi stupirà trovarla tra i pregi: dovrebbe essere un difetto, giusto? Sì e no. È vero che la Vecchia Scuola difettava di profondità narrativa, e questo non potrò mai vederlo come un bene; troppo poco attaccamento non è una cosa positiva.

Ma è anche vero che molti giocatori, oggi, tendono ad avere un po’ troppo attaccamento. Soprattutto, molti partono con l’idea di dover creare un PG già dotato di una profondità narrativa enorme, e di mille qualità (a cominciare da razza e background) che lo rendano assolutamente unico e speciale. Comprendo, quindi, chi vede nell’approccio “Vecchia Scuola” un modo per mitigare queste manie di protagonismo, insegnando ai giocatori che l’unicità e la profondità del personaggio, come pure l’attaccamento per lui, dovrebbero svilupparsi durante il gioco e in conseguenza del gioco, non al tempo zero. È tuttavia un modo un po’ drastico di trasmettere questo insegnamento, lo riconosco.

I limiti

L’alta letalità ha i suoi problemi, e non è un caso che con l’evoluzione di D&D sia stata progressivamente abbandonata.

Primo, se si muore troppo spesso o troppo facilmente, è difficile che la morte venga presa sul serio. È più facile che i giocatori riducano al minimo l’attaccamento al loro personaggio (vedi sopra) e di fronte alla sua ennesima morte inizino a fare spallucce.

Non è per forza così, naturalmente: Principia Apocrypha dice “non preoccupatevi se i giocatori non sono affezionati ai personaggi, lo diventeranno dopo aver avuto qualcosa da perdere”, implicando che l’attaccamento sia qualcosa che si sviluppa con il tempo. In teoria è saggio. Ma in pratica? Una volta che ciò sarà avvenuto, il gioco non diventerà meno letale, quindi l’attaccamento renderà solo la morte del personaggio più snervante: è chiaro che la cosa diventa un disincentivo.

Soprattutto, la letalità stessa viene smitizzata: ci si aspetta che tutto sia letale, quindi non si rimane sorpresi quando qualcosa lo è.

Il fatto di non bilanciare gli scontri e i pericoli è comodo per i Diemme pigri e per quelli che vogliono farsi un vanto del loro preteso realismo, ma diventa rapidamente frustrante per i giocatori, che si sentono in balia degli eventi. Nel senso, se il nemico è enormemente più forte e li vuole morti, dovrebbe riuscire a ucciderli, qualunque cosa facciano, giusto? Quello sarebbe il vero realismo. Ma mancherebbe l’agency, la responsabilità di scelta dei giocatori.

Lo stesso Principia Apocrypha incoraggia il Diemme a far capire chiaramente ai giocatori, attraverso le descrizioni, quando un nemico è molto forte, e a lasciare sempre loro la possibilità di evitare un combattimento, se vogliono. Questo mitiga un po’ il problema, ma lascia anche il tempo che trova. Il mondo è pieno di sfide pericolosissime da cui si può stare alla larga. Se ci si limita a questo è poco divertente, no?

Ok, ci possono e ci devono essere altri modi (diversi dal combattere) per risolvere i problemi. Però il combattimento, nel moderno D&D, è divertente. Le nuove edizioni lo hanno arricchito con opzioni di ogni genere proprio per renderlo più bello e più vario. Non è bene che un giocatore ricerchi la battaglia fine a se stessa, divertendosi a massacrare senza criterio; ma molti giocatori si divertono a giocare uno scontro, e se ci sono le giuste motivazioni per metterlo in scena, perché negarselo?

L’alta letalità porta facilmente a un comportamento chiamato, in gergo, turtling: si ha quando i PG sono così timorosi e diffidenti verso tutto ciò che incontrano da adottare un comportamento super-cauto e super-prudente, ai limiti della paranoia. Che può essere ottimo dal punto di vista strategico, ma alla lunga non è divertente.

Infine, l’alta letalità può ostacolare la costruzione di una storiaabbiamo visto in questo blog che la storia richiede un obiettivo che i PG siano motivati a raggiungere. A meno che l’obiettivo non sia sempre noioso e banale come “recuperare il tesoro sepolto in questo dungeon” (che fa molto “Vecchia Scuola”, per carità), se i PG cambiano continuamente a causa dell’eccesso di mortalità diventa difficile motivare adeguatamente i loro rimpiazzi.

In conclusione

Penso che ogni Diemme e ogni gruppo abbia un proprio “livello ottimale” di rischio di morte. Se è troppo basso la tensione si dissolve, come pure il piacere della vittoria (che sembra troppo a portata di mano e quindi immeritata), ma se è troppo alto l’esasperazione, la paranoia e il mero sforzo di sopravvivere schiacciano la storia.

Personalmente non sono un fan dell’alta letalità. Questo non significa che la morte dei PG non sia possibile nelle mie avventure: lo è, eccome. Significa però che, là dove mi aspetto che un combattimento sia tra le opzioni considerate per superare una sfida, generalmente lo bilancio secondo le regole.

Esistono anche situazioni in cui i miei PG si trovano di fronte avversari decisamente oltre la loro portata: è successo due volte di recente, con un gruppo di 2° livello di fronte a un drago nero, e con un gruppo di 1° livello di fronte a un diavolo d’ossa. Queste situazioni però sono l’eccezione e sono attentamente “preparate” dalla storia che le precede, in modo che i giocatori sappiano con cosa hanno a che fare. Inoltre mi assicuro che ci sia comunque un modo (possibilmente più di un modo) di superare la sfida con profitto.

Come ho scritto in un altro articolo, la soluzione migliore per me è progettare avventure in cui la sconfitta non coincida necessariamente con la morte: a quel punto si possono aumentare le probabilità di quella sconfitta per aumentare la tensione, senza che questo porti a una strage di personaggi. Chiedersi “ce la farò a risolvere il problema?” è, per i giocatori, una domanda drammatica altrettanto emozionante, se non più emozionante, rispetto al banale “ce la farò a sopravvivere?”.

lunedì 7 aprile 2025

Esperienza in MO


Dopo aver iniziato finalmente un'avventura con OSE e pensando ad uno switch duraturo (o almeno più lungo delle sessioni ai vari Cthulhu/Rinascimento/Cairn/LSB...), vi propongo 
una serie di post presi da alcuni articoli sul bellissimo blog Dietro lo schermo che potrebbero aiutarci al cambio di paradigma tra il D&D moderno a cui siamo abituati (che non disdegno affatto, anzi la 5ed è molto bella!).
Questo perché ogni coperta è corta, e sebbene ci siano tante cose belle nel gioco moderno (caratterizzazione fine e approfondita dei PG, focus su storie più epiche, possibilità di interpretazione più marcata, solo per citarne alcune che a me piacciono molto), trovo che alcuni limiti siano stati sopperiti al meglio con i "nuovi" retrocloni della Vecchia Scuola (in particolare lo snellimento dei regolamenti e la possibilità di un approccio più "semplice" alle avventure). Ma dato che le cose non le si capiscono finché non si sperimentano, ecco che ho voluto spingere su questo passaggio per verificare in prima persona i tanto declamati vantaggi. Questo passaggio però, perché sia il più naturale e "indolore" possibile, comporta che alcuni aspetti dell'Old School siano compresi a fondo (io sto approfondendo un sacco e quello che leggo mi piace molto, al netto di alcuni - necessari, per il discorso della coperta di cui sopra - nei.
I due aspetti in cui secondo me si differenziano maggiormente le due correnti sono la diversa importanza data al combat e alle statistiche, che nella Vecchia Scuola sono state marginalizzate. Negli articoli successivi la disamina su alcuni di questi punti!

Il principio

1 PE (punto esperienza) per ogni moneta d’oro trovata (o equivalenze simili): era questa l’usanza nelle edizioni “storiche” di D&D.

Questo è il modo principale di fare esperienza e avanzare di livello; spesso (nelle forme più pure di questo stile) è proprio il solo e unico modo. Principia Apocrypha permette ai Diemme, se vogliono, di dare PE anche per i mostri o per altri motivi, ma raccomanda di rendere questi premi secondari rispetto a quelli per il bottino.

I pregi

Le prime volte che mi sono imbattuto in questo principio ricordo di aver pensato che fosse una cavolata madornale, una cosa priva di senso. Ma ragionandoci meglio ha i suoi pro.

Innanzitutto mette l’accento sull’esplorazione come impostazione principale del gioco. La Vecchia Scuola è soprattutto basata sui dungeon (dungeon crawl): quello che i PG fanno, per la maggior parte del tempo, è esplorare dungeon, affrontando grossi rischi pur di frugarli bene in ogni angolo. Perché i PG lo fanno? Per il tesoro. E perché i giocatori dovrebbero farlo? Perché più tesoro mettono insieme, più i loro PG si evolvono e diventano potenti. Un meccanismo molto semplice, quindi, per ricompensare quel comportamento che è la base stessa del gioco.

Dietro l’apparente banalità c’è qualcosa di sorprendentemente efficace e profondo: i giocatori devono confrontarsi costantemente con il rapporto rischi-benefici, avendo da un lato il pericolo di perdere il personaggio se ci si spinge troppo in là (tra l’altro la mortalità, nei giochi OSR, tende a essere alta, come vedremo in un futuro articolo), dall’altro il fatto che andare avanti, esplorare più a fondo, sia l’unico modo di farlo progredire.

Sono entrambe “leve” che colpiscono direttamente il giocatore: spingono direttamente lui a continuare a giocare al gioco, a prescindere dalla storia e dagli scopi “privati” del personaggio. Una sorta di disintermediazione che può far storcere il naso ai puristi della narrazione, ma è sorprendentemente efficace nel generare coinvolgimento (engagement) dei giocatori; là dove invece il pigro milestone leveling dei nostri giorni (“pietre miliari”: i PG avanzano di livello quando lo decide il Diemme, senza tante storie) può fallire clamorosamente, inducendo certi giocatori ad andare ognuno per la sua strada e ad anteporre le loro personali paturnie alla struttura base del gioco.

Insomma, talvolta le cose semplici sono le più efficaci.

Un altro pregio di questo approccio si può notare se lo contrapponiamo a quello in cui i PE vengono conferiti per l’uccisione dei nemici. Complici i manuali delle edizioni più recenti, che spesso hanno attribuito esplicitamente ai singoli mostri un “valore in PE”, e complice la mentalità “da videogioco” ormai interiorizzata da molti, questo secondo approccio si è ahimè fin troppo diffuso negli ultimi decenni. C’è chi ci si trova bene, ma spesso sento giocatori o Diemme lamentarsi per gli spiacevoli effetti collaterali, il più ovvio dei quali è la trasformazione dei PG in macchine assassine che prendono a spadate tutti quelli che incontrano senza neppure un “chi va là”. Molti passano all’approccio “pietre miliari” proprio per evitare ciò.

Si dimostra ancora una volta che il metodo di assegnazione dell’esperienza è un potente strumento per incentivare e disincentivare dei comportamenti.

Ebbene, un gioco in cui i PE dipendono dal bottino è l’antitesi quasi perfetta all’atteggiamento guerrafondaio: basta introdurre questo approccio e subito tutti si renderanno conto che il combattimento non è lo scopo né l’oggetto del gioco, e non è qualcosa di desiderabile; a volte è un male necessario, altre volte è proprio un rischio utile. Ogni astuto stratagemma per aggirare i nemici e arrivare al tesoro senza combattere è premiato, quindi incentivato. La violenza non è più la risposta di default a qualunque ostacolo.

I limiti

L’approccio “soldi = PE” non è esente da difetti.

Un possibile effetto collaterale è quello di incentivare i giocatori a un certo grado di avidità ed egoismo: perché non tenere per sé il tesoro, o cercare di sottrarre ai colleghi la loro parte? Questo tipo di conflitto tra PG, volendo, si può facilmente evitare dicendo che i PE vengono distribuiti in modo uniforme nel gruppo, chiunque sia a trovare e/o tenere i soldi (cosa che consiglio). Ma anche in questo caso resta il problema del conflitto con l’esterno: la tentazione di derubare contadini, locandieri e onesti mercanti, già latente in più di un gruppo, può diventare fortissima se ciò comporta anche un facile aumento di livello. Certi vecchi manuali ricompensavano solo il tesoro riportato nella civiltà, il che, oltre a indirizzare chiaramente i PG verso dungeon e vecchie rovine, poteva rendere una sfida divertente anche il viaggio di ritorno: finché i soldi non sono al sicuro al villaggio, niente PE! A seconda dell’ambientazione, però, questo può essere difficile da implementare.

Anche al di là di questi effetti collaterali, resta il fatto che questo approccio è per forza di cose tesoro-centrico, quindi disincentiva e mette in secondo piano tutti quegli aspetti dell’avventura che non hanno niente a che vedere con la ricchezza. Crescita personale, carattere e storie individuali dei singoli PG, indagini, intrighi cittadini, e perfino la tradizionale lotta del Bene contro il Male non ingranano granché con questo sistema.

Certo, c’è sempre la soluzione di aggiungere “…e c’è anche un ricco tesoro!” come postilla a qualunque missione, ma è un escamotage che diventa rapidamente noioso, e non risolve la questione essenziale, cioè il fatto che le scelte dei giocatori che non riguardano il tesoro hanno, giocoforza, molta meno importanza rispetto a quelle che lo riguardano, e la scelta che porta ad arricchirsi di più sarà sempre inevitabilmente la preferita.

Come si è detto all’inizio, è un approccio pensato per un determinato tipo di gioco (esplorare, nello specifico esplorare i dungeon) e segna un po’ il passo quando si esce da questo perimetro.

In conclusione

La Vecchia Scuola ci ha dato uno spunto per riflettere sulla questione dell’esperienza e delle ricompense da una prospettiva nuova.

Tutto sommato, però, quello che io raccomando caldamente è ancora l’approccio che ho presentato nel primissimo articolo del mio blog: dare punti esperienza per le sfide superate. Ha questi stessi pregi (dà chiarezza alla struttura del gioco, e non incentiva la violenza come soluzione fissa) ma non ha questi difetti, o perlomeno è molto più flessibile, adattandosi all’obiettivo del gruppo: se l’obiettivo è fare soldi, si sarà ricompensati facendo soldi; se è raggiungere determinati risultati a livello di trama, da quelli verrà la ricompensa.

mercoledì 2 aprile 2025

Alchimisti, saggi e Bambole di Pezza

Baldazar dopo aver dormito dalla zia Susanna

Lasciando Baldazar a dormire dalla zia Susanna, Snake, Ned e Glutiniel decisero di dirigersi verso la locanda per alloggiare la notte; avrebbero esplorato casa Windler il mattino dopo, con calma.
Passando per la piazza però, questa volta rasentando il pozzo al centro, sentirono un odore di acqua putrida, che ad una veloce ispezione risultò stranamente torbida. Ma forse c’erano ben altri problemi ora ed una notte di riposo era quello di cui c’era bisogno dopo il viaggio della mattina.

La Locanda del Bue Azzoppato era gestita da un uomo basso di nome Kinan, con due grosse basette sulle guance ed uno sguardo triste. Secondo l'oste, l'acqua del pozzo si era trasformata in sangue e diversi si erano ammalati... 
Ai tavoli due persone che chiacchieravano, altre tre che stavano mangiando osservando un pezzo di carta al centro del tavolo e un ragazzo più o meno della loro età che stava piangendo in un angolo. 
Glutiniel si diresse subito dal ragazzo, chiedendogli il motivo della sua frustrazione, ed egli rispose che era un accolito del tempio e che quando la barriera si era alzata era fuori per commissioni, ed ora era preoccupato per le persone rimaste intrappolate all’interno, a suo dire circa una quarantina tra confratelli e consorelle, studenti, abitanti del villaggio, visitatori e prigionieri. La sera prima Lady Constance - famosa paladina di Halcyon - ed il suo scudiero, arano arrivate di fretta al tempio ed erano state accolte come se il loro arrivo fosse atteso. Non sapeva però nulla di più e non aveva notato nulla di strano nella mattinata, prima che si creasse la barriera.
Avendo affittato una stanza da 4, chiesero a Justin - questo era il suo nome - di alloggiare con loro ora che era fuori dal tempio; sarebbe stata un’ottima guida del paese.
Cercarono poi di attaccare bottone con i tre avventori che mangiavano: un tipo alto e muscoloso in armatura, uno basso e tarchiato con dei baffi a spazzolo (alla Columbro, che non è morto...ndr) ed una evidente parrucca bionda sulla testa (alla He-man, che non ha mai cambiato parrucchiere), ed una donna alta e secca, con un pronunciato naso aquilino. I tre però si mostrarono infastiditi dalle attenzioni del gruppo e tagliarono corto su ogni tentativo di approccio ritirandosi in camera loro, al piano superiore.
Insospettito dall’atteggiamento, Snake li seguì cercando di origliare dalla porta, sentendo solamente una frase tra i discorsi confusi: “Speriamo che quei ficcanaso non ci mettano i bastoni fra le ruote”...
Decisero comunque di andare a dormire e di riprendere la ricerca di informazini l’indomani.

A mezzanotte però vennero svegliati dai rintocchi della campana del tempio: erano lenti ma numerosi, tanto che si prepararono per scendere in strada e andare a vedere se fosse accaduto qualcosa alla barriera magica che avvolgeva il tempio. Anche gli altri cittadini si erano svegliati e si erano affacciati, e qualcuno si stava dirigendo nella stessa direzione. La barriera però sembrava immutata... Ned allora provò a chiedere se fosse capitato prima o se ci fosse qualcosa di anomalo, ricevendo come risposta che era la prima volta che succedesse una cosa simile nel bel mezzo della notte, e che comunque i rintocchi dovevano essere stati più di 30.
Non potendo fare nulla tornarono alla taverna e si rimisero a dormire. L’altro gruppo sembrava non si fosse interessato della cosa.

Al mattino, riunitisi con Baldazar, vollero subito andare assieme a Justin da Omar, l’alchimista, dato che Justin ricordava che i figli Will e Tam erano studenti e dovevano essere rimasti intrappolati all’interno del tempio. Oltre ai confratelli e alle consorelle, nessun altro nel villaggio era coinvolto direttamente con le attività del tempio, e svolgevano praticamente tutte le funzioni di governo del villaggio (per quel poco che c’era da amministrare).
Omar, un uomo calco con una lunga barba (da hipster)  si mostrò preoccupato per la sorte dei due ragazzi e offrì 300 monete d'oro al gruppo se gli avessero riportato i figli sani e salvi. Diede loro anche una fiala di acido di sua produzione, per tentare di intaccare la barriera attorno al tempio.

Alla ricerca di qualcuno che conoscesse la magia, vennero indirizzati dal vecchio Radomir, lo studioso del paese. Non era un mago, ma conosceva la magia - oltre che un sacco di linguaggi - e sapeva riconoscere oggetti o scritte magiche. Poco prima della sua casa però, vennero fermati da tre ragazze che attendevano appoggiate ad un albero con un atteggiamento bullesco, che si facevano chiamare le bambole di Pezza. Severine, così si presentò, era alta e agile, con un arco a tracolla. Un amo usato come piercing ne identificava l'animo ribelle e l'atteggiamento da dura che rivolse nei confronti del gruppo. Le altre due erano Lyla (ribattezzata Yogina da Snake) e Betty, la prima bassa e muscolosa, con dei grezzi tatuaggi di serpenti sulle braccia, che sembrava più che altro annoiata, mentre la seconda era tutta vestita di nero, con una faccia funerea (un po' emo). Nonostante lo stile provocatorio delle ragazze, il gruppo non si fece intimidire e propose una sfida da definire una volta terminata la visita al vecchio Radomir. Questo però, nonostante fosse affabile e gentile, non seppe aiutarli; aveva cercato tutto il giorno precedente informazioni sui suoi libri, ma la faccenda gli rimaneva oscura. Il giovane chierico propose una ricerca su qualche divinità nemica di Halcyon e Radomir rispose di ripassare il pomeriggio.
Intanto avevano definito la proposta da fare alle ragazze: le avrebbero sfidate ad una prova di coraggio a villa Windler e avrebbero messo in palio la conoscenza di una mappa del tesoro (almeno, questo immaginavano fosse il foglio dei tre avventori sospetti della locanda). Ma Severine sembrava abbastanza sveglia da non abboccare, e propose di entrare la notte (rubando una barca dal molo) e sfidarsi a chi riusciva ad uscire per primo con gli stivali all'interno dello studio. Il gruppo accettò, ma Snake propose di andare subito alla villa, finché era giorno. Anche Justin, seppur riluttante per la nomea che girava attorno alla casa, decise di accompagnarli, ma li mise subito in guardia dicendo che alla prima avvisaglia di pericolo, se ne sarebbe andato.

Passando dalla pescivendola sulla riva del fiume Brina, chiesero qualche informazione: la pesca risultava regolare (come potevano ben vedere dal pesce fresco e dalle anguille che aveva sul bancone all'esterno) e non c'erano stati particolari eventi. Il fiume, che scorreva verso est, aveva sponde erbose piegate dal forte vento che sembrava incanalarsi lungo l'alveo; era largo circa 30 metri lungo il corso regolare, ma si allargava in corrispondenza dell'isola che conteneva la villa. Questa era una struttura su due piani visibilmente abbandonata, circondata da una folta vegetazione incolta. 
Per 1 moneta d'oro ottennero un passaggio da uno dei pescatori locali ed approdarono lunga la sponda dell'isola. Dopo una prima esplorazione del perimetro, constatarono che non c'erano né trappole né passaggi segreti; al piano terra c'erano solo due porte e dalle finestre si potevano scorgere gli ambienti impolverati e abbandonati: un salotto con poltrone dai braccioli delle quali uscivano diverse leve, una sala da pranzo (da cui proveniva un rumore come di un ticchettìo) con un grande tavolo circondato da sedie e sormontato da un vistoso lampadario di vetro, e una cucina piena di fili che attraversavano la piccola stanza, come a formare una ragnatela. Ne dedussero che lo studio con gli stivali doveva trovarsi al piano successivo. 
Non rimaneva che entrare...