Altro articolo preso da lospaziobianco.it, questa volta un approfondimento sul mio sceneggiatore prefertito: Chris Claremont. L'articolo, così come la storia editoriale del beneamato, non è aggiornato, ma d'altronde anche io sono rimasto una trentina di anni indietro, quindi poco male... Propone però alcuni spunti e riflessioni sul fumetto americano che mi sono parsi interessanti!
PRIMA UNA RIFLESSIONE SULLE
REGOLE
Il fumetto seriale statunitense
ha le sue regole. Alcune di esse sembrano essere immutabili nel corso dei
decenni, altre si modificano in relazione ai cambiamenti culturali ed
editoriali delle diverse epoche.
Alcuni lavori impongono regole
proprie, anticipando alcuni mutamenti in atto, e diventano dei punti di
riferimento per l’intero settore. Uno di essi è stato, senza dubbio, Uncanny X-Men
della gestione Claremont.
Provo a riassumere in modo
estremamente sintetico alcune delle regole che la serie ha imposto sul mercato:
- · continuità stretta e progettata con anni di anticipo;
- · evoluzione psicologica dei personaggi, secondo un movimento narrativo tipico delle soap opera;
- · cambiamento costante degli equilibri strutturali alla serie, sostenuto da un impianto di fondo costante e riconoscibile;
- · costruzione di climax narrativi funzionali a shoccare i lettori;
- · allargamento “a macchia d’olio” della presenza dei concept di fondo della serie e dei suoi personaggi all’interno dell’intero mondo editoriale Marvel (per capitalizzare il più possibile il successo della serie, attraverso miniserie, spin-off e cross-over).
Uncanny X-Men non è stata
pioniera su tutti questi temi, ma per anni ha rappresentato una delle massime
espressioni e, senza dubbio, la serie di maggiore successo all’interno di
questi parametri.
La cosa che credo sia importante
evidenziare da subito, è che la testata impone tali regole in funzione del suo
successo e che, contemporaneamente, tali regole sono la condizione essenziale
per il successo stesso. Insomma, un meccanismo virtuoso che si auto-alimenta
fino a far diventare la serie di Chris Claremont il successo editoriale più
clamoroso e longevo della storia moderna dei comics di supereroi.
IL CAMBIAMENTO E IL SUCCESSO NEL
FUMETTO SERIALE
Il tema che mi interessa trattare
in questo articolo riguarda il cambiamento, l’evoluzione narrativa della serie.
Chiunque non conosca il mondo
degli X-Men classici di Claremont, dovrebbe prendere in mano l’intero ciclo di
storie realizzate in coppia con John Byrne, il cui culmine narrativo è
rappresentato dalla saga di Fenice Nera. I mutanti di Claremont e Byrne, agli
inizi degli anni ’80 del secolo scorso, sono uno dei migliori esempi della
concezione moderna del fumetto seriale americano: un progressivo e costante rinnovamento
e ribaltamento degli equilibri interni alla serie, sostenuto da uno scenario di
base costante e riconoscibile.
Tale scenario, che potremmo
chiamare pre-testo narrativo, è costruito attraverso alcuni semplici idee:
- · la classica lotta tra Bene e Male (che supera tuttavia le schematizzazioni manichee e moraliste della golden age, attraverso un relativismo etico dinamico e realistico);
- · il razzismo verso qualunque cosa sia classificato come diverso;
- · il multiculturalismo dei personaggi (che trova il suo riflesso speculare nella polifonia di voci e di caratteri che si incontrano/scontrano storia dopo storia);
- · la riflessione “politica” sul concetto di potere e di controllo (e di perdita di controllo).
Il pre-testo ha rappresentato un
importante elemento di novità, non solo per lo specifico dei suoi contenuti, ma
soprattutto per la consapevolezza e la maturazione che ha raggiunto nel corso
degli anni, a un livello prima impensabile in altri fumetti seriali. Si tratta
di uno scenario flessibile ma riconoscibile, stabile ma sufficientemente aperto
da favorire continue evoluzioni e “rivoluzioni” narrative, che hanno
attraversato negli anni le vicende dei personaggi degli X-Men.
È proprio nell’equilibrio tra
pre-testo costante e rivoluzioni narrative che si spiega il successo della
serie degli X-Men. Al lettore, il gusto di ritrovarsi a suo agio all’interno di
tematiche riconoscibili e familiari (alcune delle quali poste già a fondamento
nella serie classica degli X-Men di Stan Lee e Jack Kirby) e di sorprendersi
numero dopo numero nello scoprire cosa potesse succedere ai personaggi tanto
amati.
Alcuni esempi: la perversione
“metafisica” di Jean Grey nella saga di Fenice Nera; il futuro apocalittico di
Giorni Di Un Futuro Passato; le evoluzioni personali di Wolverine, teso tra
un’improbabile ricerca di equilibrio interiore e la sua sete di sangue; il
rapporto contraddittorio e mutevole tra Xavier e Magneto; l’inserimento nel
gruppo di personaggi difficili, se non ambigui, come Rogue e l’evoluzione
caratteriale al limite della schizofrenia di altri protagonisti, come Tempesta.
Per anni, chi prendeva in mano un
numero degli Uncanny X-Men si chiedeva cosa sarebbe successo di nuovo quella
volta.
IL PUNTO DI NON RITORNO, LA
MARVEL COMICS NON È PIÙ D’ACCORDO
Claremont ha spinto a tal punto
in avanti tale impostazione, da provocare scossoni narrativi ed editoriali
eclatanti, come il periodo di “invisibilità” nel ritiro australiano, iniziato
su Uncanny X-Men #229 (e la scomparsa dei mutanti da tutte le serie Marvel), o
come quello che, in definitiva, ha portato alla rottura dello sceneggiatore con
la Marvel Comics nel periodo in cui la direzione era affidata al
“normalizzatore” Bob Harras (cambiamenti che avrebbero previsto, tra l’altro,
la morte della superstar Wolverine).
È osservando tali cambiamenti e
lo show-down finale che ha portato, nel 1991, alla dolorosa separazione tra
Claremont e la Marvel, che ci è possibile comprendere il paradosso che
caratterizza il fumetto seriale statunitense da decenni. Il successo di una
serie come Uncanny X-Men si è costruito attraverso l’innovazione, la
sorpresa, e lo choc verso il lettore; tale successo tuttavia, a un certo punto
deve essere salvaguardato dalla dirigenza editoriale e porta a una progressiva
restrizione della libertà creativa, imponendo vincoli, paletti e condizioni che
si riflettono sulla qualità intrinseca della serie. La stessa nel tempo perde
le proprie caratteristiche dinamiche fino a diventare un prodotto ripetitivo e
stanco, esaurendo mortalmente i suoi autori e i lettori.
Claremont ha avuto la forza di
mantenere, anche nei momenti di maggiore condizionamento editoriale da parte
della dirigenza, la lucidità e la forza (contrattuale) di imporre almeno in buona
parte le proprie scelte, fino al punto di non ritorno della gestione Harras,
che ha imposto un sostanziale congelamento, attraverso cross-over e saghe a
ripetizione, normalizzando le dinamiche narrative dell’intero universo mutante,
ponendo malamente l’accento sull’ingrediente sbagliato della formula vincente:
la spettacolarizzazione dei disegni e dei “fenomeni” emergenti in quegli anni
(Jim Lee e Marc Silvestri su tutti).
Le idee di Claremont sono, col
senno di poi, in completa continuità con quanto realizzato e sviluppato negli
anni precedenti, e non rappresentano di certo scelte particolarmente clamorose
o innovative. L’autore aveva semplicemente proseguito, anche negli ultimi mesi
della propria gestione, a rivalutare il suo patrimonio narrativo attraverso il
cambiamento, per colpire il lettore e non annoiare se stesso. Peccato che
l’irrigidimento editoriale ed economico della Marvel ha impedito l’assorbimento
e la comprensione di tale ennesima evoluzione.
PER SEMPRE MARVEL, UN TRISTE
RITORNO A CASA
La storia dice che dopo la
separazione dalla Marvel, Claremont è andato incontro a una successione di
imprevedibili insuccessi, prima in casa DC Comics, poi nel ritorno alla Casa
delle Idee. Pubblicità, commozione e nostalgia a parte, il ritorno di Claremont
sulla serie regolare degli X-Men è un disastro. Lo sceneggiatore non solo
appare incerto nell’impostare gli scenari di base, all’interno di un caos
narrativo frutto di una serie infinita di gestioni sbagliate dei personaggi da
parte dell’editore, ma soprattutto emerge con chiarezza l’inattualità del suo
stile narrativo, che sembra la caricatura dell’impostazione che lo rese famoso:
l’epica diventa boria, il pathos noia e così via. I comics erano già cambiati,
e molto, e l’autore non sembra in grado di trovare un posto.
Parzialmente più felice, ma
comunque dimenticabile, la sua breve gestione dei Fantastici Quattro, che ha
preceduto il ritorno ai mutanti, dove se non altro l’autore ha mostrato di
sapersi ancora divertire, privo dalla pesante eredità di un confronto con il
suo lavoro precedente.
In ogni caso, Claremont è tornato
per restare. Una ricompensa tardiva per il monumentale lavoro svolto negli anni
passati e per la quantità imbarazzante di soldi che aveva portato nelle casse
della Marvel Comics.
La gestione della serie Exiles o
il ritorno sull’agonizzante Excalibur sono a loro volta dimenticabili parentesi
di una carriera ormai in declino, prima che Joe Quesada decida di dare
all’autore lo spazio per riprendere le fila di quanto aveva lasciato in sospeso
negli anni ’90, al momento del divorzio con la Casa delle Idee.
PER SEMPRE X-MEN, OVVERO LA FINE
DEL FUMETTO SERIALE
X-Men Forever è la serie ideale
per qualunque nerd dei fumetti, dall’impianto “volutamente” nostalgico e dove
le vecchie idee di Claremont hanno l’opportunità di trovare nuova luce, a
partire dalla “sconvolgente” morte di Wolverine.
Nella serie, iniziata nel giugno
del 2009, Claremont è fedele al suo motto e sviluppa, nel giro di due cicli
narrativi, una serie di cambiamenti straordinari e, per molti versi,
difficilmente comprensibili.
X-Men Forever è una serie
paradosso: fuori dalla continuity ufficiale della Marvel Comics (concetto che,
come ha più volte dimostrato Grant Morrison, non ha più nessuna attualità) ha
l’ambizione di tornare a sviluppare temi vecchi di vent’anni. Una serie che
“non esiste” vuole rinnovare concetti e percorsi narrativi ormai dimenticati.
Siamo nella piena, totale involuzione del concetto di serialità, che appare per
molti versi come l’ultimo, straziante canto del cigno di un’epoca.
Lo sceneggiatore si impegna e
sembra giocare con rinnovato entusiasmo, ma il meccanismo è ormai rotto. La
sensibilità ha perso qualunque contatto con il reale e non riesce a toccare in
alcun modo l’emozione del lettore. Le idee appaiono non solo invecchiate, ma
tutto sommato decisamente ridimensionate dal tempo, e dalle tante, reali
innovazioni che sono avvenute negli anni (anche nella famiglia dei mutanti,
basti pensare alla gestione Morrison).
Claremont, come emerge anche
dalle interviste rilasciate di recente (compresa l’ultima, resa in esclusiva
per Lo Spazio Bianco), appare amareggiato e posseduto da un rimpianto
insanabile che si riflette nell’impostazione delle sue storie. L’autore sembra
costantemente in lotta per ritrovare il momentum ormai sparito; sembra più
interessato a rivivere il passato che a raccontare qualcosa di nuovo.
X-Men Forever è quindi un
monumento funebre a un’idea di fumetto seriale che non è più attuale. È un
viaggio nostalgico che non emoziona per i suoi contenuti narrativi, ma per il
senso di straniamento e di malinconia che caratterizza ogni parabola discendente.
Ed è, in definitiva, un grande insegnamento sul paradosso della condizione
umana, la creatività e la serialità: niente è destinato a ripetersi senza
rinnovarsi, il rinnovamento è un’illusione.
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