Dopo un mai così lungo silenzio, ecco un post che non ci si aspetterebbe (ma dato che è già pronto, è perfetto!).
Un articolo preso dalla Tana dei Goblin in cui viene recensito un pezzo del libro "Jocelyn uccide ancora", scritto da un caustico autore che si firma Sgarabonzi e che ho scoperto essere, oltre che un appassionato di giochi da tavolo et similia, un utente più che attivo in Tana.
Un po' come per "La stanza profonda", l'hobby nerd per eccellenza sta piano piano entrando anche nell'immaginario collettivo mainstream, e questo per me - aldilà dello stile forse un po' eccessivo dello scritto - è un gran bel sintomo.
Lascio le parole quindi direttamente all'articolo e allo stralcio del libro!
Alessandro Gori - acidshampoo qua sulla Tana - è un
apprezzatissimo autore satirico; ci sembra una bella cosa presentarvi il suo
ultimo libro. Attenzione: contiene giochi da tavolo. E parolacce. Ma
soprattutto giochi da tavolo.
"Jocelyn Uccide Ancora - spiega Alessandro - è un
almanacco eterogeneo, fluido e caleidoscopico fatto di tante cose. Racconti,
cronache dall'adolescenza profonda, guide pratiche, parodie, poesie, lettere
perdute e dialoghi teatrali. Sulla prima pagina campeggia la dedica a Reiner
Knizia e, appunto, si parla anche di giochi da tavolo. È un libro comico,
spesso di una comicità virata al nero, ma è un libro pure intimistico e cupo.
Questo libro invece che firmarlo con nome e cognome come i primi tre, l'ho
firmato come Lo Sgargabonzi."
Mio babbo lavorava per la Banca Popolare dell’Etruria.
È stato pure direttore della sede centrale aretina. È andato in pensione nel
2007, quindi non è responsabile dei successivi casini. Dico sul serio, non è
responsabile dei successivi casini. Però della Banca tutto posso dire tranne che
male. Negli anni ‘80, per Natale, la banca dava un buono di cinquantamila lire
ai propri dipendenti da spendere nei negozi di giocattoli locali, per un regalo
ai figlioli. Era un modo per sostenere l’economia della città di Arezzo, città
di Pietro Aretino, Totò, nonché quartier generale della Massoneria ma, per
fortuna, anche dell’Opus Dei. Fin da piccolo a casa mia c’è stato questo
atteggiamento che “il gioco sì, ma che sia istruttivo”. E non era un diktat dei
miei, persone notoriamente semplici, ma del sottoscritto, bambino prodigio e
invidia del vicinato, che usava quella massima fin dai tre anni. Quarta di
copertina Io nasco in una frazione di mille abitanti in mezzo alla Val di
Chiana, che a sua volta nasce e vive tutta intorno all’eccellenza locale: la
fabbrica di cucine di lusso Del Tongo. Qua siamo tutti figli di consanguinei,
basta tentare di farsi dare il resto giusto da qualsiasi elettrauto per
accorgersene, quindi non sorprende che i miei compagni di classe alle
elementari spasimassero per macchinine, robot, biliardini, Exogini e Skifiltor.
Io no. Fin da piccolo ho sempre amato i giochi da tavolo. Il mio primo fu
Doctor, Doctor! della MB, un deduttivo ospedaliero in cui, per farla breve,
dovevi scoprire se il male s’era già preso le ossa. Mi venne regalato nello
stesso Natale in cui scoprii che Babbo Natale non esisteva. Entrò mio padre
vestito di tutto punto da Santa Claus, tranne la barba e il cappello perché
alla Upim li avevano finiti. Si capiva dalla faccia che era lui. E mia mamma
subito: “Sergio!”. Essendo l’unico bambino coi cromosomi quasi a posto,
trascorrevo interi pomeriggi a studiarmi regolamenti in attesa di giocare con
gli amici. Apparecchiavo per sei giocatori attorno a un tavolo circolare Del
Tongo e passavo da una sedia Del Tongo all’altra. Il problema era per quei
giochi a informazione nascosta tipo Cluedo: ogni volta che ero il colonnello
Mustard dovevo autosuggestionarmi di non sapere quali carte indizio avevano in
mano il professor Plum e la signora Pavone, anche se Plum e la Pavone ero
sempre io. Già dal primo giro capivo che Miss Scarlett era l’assassina eppure,
quando toccava a lei, dovevo comportarmi da una che si pensa Enzo Tortora.
Intanto i miei compagni di classe passavano i pomeriggi agli allenamenti di
calcio e il giorno dopo in classe era tutto un ieri il mister qui, ieri il
mister là mentre sbranavano panini con la frittata, le cozze e i Lego. Io
invece trascorrevo la ricreazione con le mie compagne di classe a cantare La
Valle dei Timbales (I Figli di Bubba, Sanremo dell’88) e per questo venivo
preso come futuro uranista dai compagni e pure dai genitori degli stessi, tanto
che indissero un consiglio extrascolastico perché dicevano che anche Leopoldo
Mastelloni da bambino era così. C’era solo il “piccolo” (notare le virgolette)
dettaglio che, dopo la scuola, io queste bambine le slimonavo indiavolato, nudi
in mansarda con la porta sprangata perché la nonna non ci scoprisse, mentre i
miei virili amici scoprivano il sesso fra di loro negli spogliatoi con le
saponettine Lux insinuanti o al massimo con gli zii di Vicenza. La mia invece
era un’infanzia perfetta da cui si poteva solo peggiorare. E infatti. In quegli
anni praticamente mi son fatto tutto il catalogo MB ed Editrice Giochi, un po’
meno quello della Ravensburger e della Clementoni perché mi hanno sempre fatto
tristezza già dai titoli. Giochi tipo “Concilia?”. Concilia questi gran cazzi.
All’infanzia felice ha fatto puntualmente seguito un’adolescenza turbolenta,
durante la quale sono tornato compulsivamente nei negozi di giocattoli, proprio
come Pacciani tornava agli Scopeti: per portare avanti disperatamente la mia
passione, unica ancora di salvezza in un mondo che sentivo non appartenermi
più. Purtroppo era cambiato tutto, i coloratissimi scaffali dei miei anni verdi
erano diventati monopolio di Pino Insegno. Entravi dal giocattolaio e trovavi
Pino Insegno, ovunque, anche in più copie. In pratica era tutto un florilegio
di trasposizioni a gioco da tavolo dei programmi televisivi più di merda del
momento. Di solito erano quiz preserali presentati da Insegno, genio totale,
avanguardista, folle e visionario, un moderno Pasternak, sempre superiore ai
programmi che gli affibbiavano. Descrizione Poi sì, c’era l’ennesima edizione
del Risiko! classico, il gioco più brutto del mondo, il capolavoro d’un titolo
di guerra che riesce nell’impresa impossibile di essere piatto e noioso.
Soprattutto era la cartina tornasole di quelli che ci giocavano. Zero
strategia, zero tattica, ma quelli che invece di attaccare posizionavano carrarmatini
sorseggiando una Du Demon piccola venivano presi per grandi statisti, pensatori
illuminati e discreti leccatori di fica. Infine c’erano i giochi di ruolo, mai
sopportati neppure quelli. Uno con la maglietta dei Megadeth raccontava ad
altri quattro con la maglietta degli Iron Maiden che si risvegliavano in un
antro umido e sinistro, e quelli subito facevano il gesto di sbadigliare e
stirarsi e guardarsi intorno straniti in una cucina Del Tongo col tavolo tondo
e la nonna in poltrona col sacchettino della stomia perché il male s’era già
preso l’antro pilorico. Completamente solo e in completa ritirata da quella
straniante contemporaneità, ebbi un’estrema reazione d’orgoglio, e fu così che
decisi di buttarmi su quello che per anni avevo rifiutato: il mondo del calcio.
In culo al dottor Verde, all’hotel Boomerang e ai Bastioni Gran Sasso, iniziai
tutti i giorni ad andare agli allenamenti al campo sportivo del mio paese, non
me ne perdevo mezzo. Intanto dei miei vecchi amici non ce n’era uno solo che solcasse
ancora quel rettangolo di gioco. Erano ormai tutti operai Del Tongo, capocatena
Lebole o morti per droga. Intorno a me solo mocciosi velocissimi coi capelli
alla Dragon Ball. Pensavo che i miei risultati in quel campo sarebbero stati
disastrosi, al massimo patetici, ma fu con estremo stupore che in breve tempo
diventai centromediano metodista della Sampdoria con un contratto di
seicentomila euro a stagione.
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