lunedì 25 maggio 2020

Ultimo Turno II

Secondo appuntamento - a tratti esilarante - sempre tratto da Gioconauta!



di Luccio (e Luna) | Il virus era l’inizio, poi venne D&D – cronache di ludoteca

“Siediti, straniero. Benvenuto nel mio rifugio.”
Entrano nell’ordine: una pancia, il proprietario della pancia, uno straniero e quattro foglie secche.
L’uomo venuto da lontano si abbassa il cappuccio e avvicina una sedia al fuoco. Vecchie carte comuni di Pokémon scoppiettano nel camino ricavato da un cassonetto svuotato, dando vita occasionalmente a dei guizzi iridescenti quando le fiamme attecchiscono su una foil. Accanto al fuoco, due paia di guanti a mezze dita si asciugano dall’umidità delle strade di Neo Padania.
“Grazie Luccio” ribatte lo straniero “ma non serve che ruoli la parte dell’oste anche con me”.
“Sai che mi diverto a farlo, Brando”, gli rispondo. “Com’è andato il viaggio?”
“Mi fanno male le gambe. Andare a cavallo non è come guidare una macchina.”

Era da anni che non vedevo Brando. Da quando andò a vivere in Canada, ci sentimmo per messaggio ogni tanto, ma non passò mai a trovarmi, e io non passai a trovare lui. Ironicamente, solo ora che internet è stato definitivamente spento e viaggiare è diventato un’impresa per pochi coraggiosi, ci siamo incontrati di nuovo. Brando si era fatto crescere una bella barba, ma per il resto non sembrava cambiato.
“Qui puoi riposarti quanto vuoi, siamo in un rifugio libero. Questo pomeriggio facciamo partire un draft di Magic, ti va di fare l’ottavo?”
“Ti ringrazio, ma se hai ancora quel divanetto leopardato orribile che c’era prima dell’apocalisse, penso che passerò il pomeriggio lì”
“Ovvio che ho tenuto il divanetto, mica potevo buttarlo via. Vuoi del liquore alla coca cola? L’abbiamo imbottigliato questa settimana”
“Gradisco, grazie.”
Prendo una bottiglia da sotto il bancone e verso due bicchierini di liquido scuro. Gradiamo.

Brando ci pensa un po’ prima di farmi un discorso che evidentemente si stava tenendo dentro da quando è entrato.
“Una volta questo posto era un negozio rispettabile, battevamo scontrini a testa bassa e non guardavamo in faccia nessuno, mentre adesso è diventato una casa di accoglienza. Da quand’è che hai smesso di essere uno schifoso misantropo?”
Sì, Brando è rimasto esattamente uguale.
“Mai smesso”, gli rispondo. “Non ho sentito una grande differenza tra prima e dopo l’apocalisse. L’Ultimo Turno è nato come un rifugio per nerd in fuga dai loro casini quotidiani. Ora è un rifugio per nerd sopravvissuti al cataclisma. Faccio esattamente le stesse cose di prima, solo per uno scopo diverso, tant’è che il registratore di cassa l’ho dismesso da quando il denaro è stato dichiarato fuori corso. Non credevo che la vita senza fatturare potesse essere così interessante.”

Mentre parlo, Brando continua a guardarsi intorno. L’Ultimo Turno dev’essere stato molto diverso ai suoi occhi rispetto a come se lo ricordava. Accanto a quattro persone che giocano a Carcassonne c’è un tizio barbuto intento a preparare della zuppa in un gigantesco pentolone, emanando un potentissimo odore di aglio e cipolla. Lungo la sala corrono in ordine sparso fili con panni da asciugare appesi. Il negozio è sempre stato un luogo piuttosto frequentato, ma negli ultimi tempi ha acquistato una vivacità mai vista prima.
“Sono stato via troppi anni”, confessa Brando. “Su in Canada abbiamo solo visto l’internet spegnersi per sempre, la luce saltare, poi una forte scossa di terremoto, ma nessuno ha mai saputo cosa fosse successo davvero. Tu che eri qui quand’è iniziata la fine del mondo, cosa hai visto?”
Sorseggio un po’ di liquore per tempi difficili, mi metto comodo sulla mia sedia ed assumo il tono da “ti racconto una storia per venderti una scatola”. Certe abitudini fanno fatica a morire.

“Tutto è iniziato con una banalissima influenza di cui nessuno si ricorda più. La gente cominciò ad agitarsi dal momento in cui fu istituito il coprifuoco per circoscrivere il contagio: niente attività sociali dopo il tramonto, palestre deserte, bar chiusi, concerti annullati, fiere rinviate a data da destinarsi, centri commerciali convertiti a magazzini, musei e biblioteche sorvegliati dai militari. Praticamente eri obbligato per legge ad avere un sacco di tempo libero, ma a casa tua. Non ho mai venduto così tanti manuali di giochi di ruolo come in quel periodo.”
“Ero certo che non fosse stata colpa di un’epidemia. Avevo sentito voci di…”
“Abbi pazienza, ci arrivo. Conosci la teoria della scimmia e l’Amleto? Se lasci una scimmia per un tempo indefinito a battere tasti a caso su una macchina da scrivere, prima o poi ne metterà in fila una quantità sufficiente per comporre l’Amleto. Ecco, ora prova a pensare che le scimmie non siano una, ma milioni. Indovinare a caso l’intera bibliografia di Shakespeare diventa improvvisamente molto più facile, vero? E se invece di scrivere un libro dovessimo trovare la formula per aprire un portale verso dimensioni ignote popolate da mostri millenari, quanto tempo ci potrebbe impiegare l’umanità, calcolando che praticamente chiunque in quei giorni stava giocando a casa propria a Dungeons & Dragons recitando formule in lingue inventate, invocando creature dai nomi di fantasia?”
“Mi stai dicendo che la causa della fine del mondo… è stata Cthulhu?”
“Certo che no, so riconoscere Cthulhu quando lo vedo! Dev’essere stato un grande antico di seconda scelta, quelli che appaiono forse come miniboss a metà campagna. Non aveva nemmeno i tentacoli.”
“Ma le scimmie… volevo dire, i giocatori di ruolo… sei sicuro che siano stati davvero loro?”

“E’ solo una mia teoria, non posso saperlo per certo. Si dice che il grande antico sia sorto dalle profondità della terra tra Udine e Martignacco, evocato da un gruppo di inconsapevoli cultisti che giocavano un’avventura homemade. Non fecero in tempo a dire “fhtagn” che furono divorati, ed il loro padrone deve averli trovati talmente gustosi da continuare a vagare per l’Europa in cerca di umani da sgranocchiare, lasciando dietro di sé una scia di morte e distruzione talmente epica che avremmo pagato il biglietto per guardarla, se non fosse stato gratis e sotto casa nostra. Ci vollero giusto un paio di settimane prima che si stufasse e tornasse da solo a dormire nel sottosuolo per chissà quanti eoni, probabilmente annoiato dall’umanità. Se ha deciso così, un po’ lo capisco.”
“No, seriamente, sei davvero convinto che il mondo sia finito per colpa di un grande antico evocato a caso?”
“Macché, il problema non è stato tanto un gigantesco orrore cosmico a piede libero per qualche giorno, quanto la rivelazione dell’esistenza dei grandi antichi, che ha fomentato una quantità inimmaginabile di scappati di casa a rubare un accappatoio dal Decathlon e mettersi a professare riti in lingue che nemmeno capivano, seminando il panico per le strade.
Alla fine, di umanità da queste parti ne è rimasta pochissima, e quella poca non brilla per lucidità mentale.”

Brando continua ad ascoltarmi, ma so che sta credendo forse a metà di quello che dico. Col tempo l’ho abituato a non fidarsi troppo dei miei racconti.
Colgo l’esitazione e vado avanti a raccontare.
“Noi nerd di ludoteca non lo sapevamo, ma eravamo già preparati all’eventualità di un’apocalisse. Per anni abbiamo affinato le nostre abilità organizzative e sociali con Dead of Winter, sviluppato il senso di collaborazione con Pandemic, imparato a gestire le risorse con Brass.
I giocatori american sono stati i primi a capire quanto l’apocalisse sarebbe potuta diventare una nuova opportunità. A loro non sembrava nemmeno vero di poter partecipare alla versione live action di Death May Die, oltretutto con la variante open world. Si sono offerti per primi di proteggere il rifugio e di coordinare gruppi di ricognizione con lo scopo di cercare cibo e sopravvissuti.
Poi avevamo bisogno anche di pianificazione interna, e per quella abbiamo chiesto aiuto ai giocatori german. Gli anni passati a contare legnetti hanno permesso loro di rimanere concentrati mentre la civiltà come l’abbiamo conosciuta si stava sgretolando, perciò dobbiamo ringraziare loro e il loro training sulle plance di Village se nell’ex parchetto dietro all’Ultimo Turno abbiamo un orto biodinamico irrigato autonomamente, o se il nuovo sistema di isolamento dell’edificio non ci fa sprecare nemmeno una risorsa calore. Per dire, quel coso lì l’hanno fatto loro.”
Indico una cyclette con ancora attaccati gli adesivi della palestra a cui apparteneva in una vita precedente, prima di diventare il componente principale di un generatore di elettricità a pedali.
“Con quella produciamo energia sufficiente per far andare avanti Viaggi nella Terra di Mezzo quanto vogliamo, e se ci avanza, anche per avere un po’ di luce dopo le sei. Ma già prima che scoppiasse tutto quel casino avevamo delle ottime alternative agli strumenti elettronici, quindi non ne sentiamo così tanto la mancanza.”

Sul finire della frase, Brando mi fa cenno di stare in silenzio.
Avvertiamo un frusciare di stivali tra le foglie secche provenire da fuori della porta. Rimaniamo immobili per qualche secondo, poi Brando si alza lentamente e si nasconde tra le gli scaffali delle miniature, mentre io rimango seduto a sorseggiare dal mio bicchiere. La porta si apre, rivelando un uomo che, a giudicare dalle mani sporche e dall’aria trafelata, deve aver viaggiato parecchio.
In un attimo, Brando esce allo scoperto e blocca lo sconosciuto puntandogli una tronchesina di Warhammer alla gola. Finisco di bere, mi alzo dalla sedia sbuffando per la fatica, carico uno dei miei sorrisi di quand’ero un negoziante, ed accolgo il tipo sospetto a braccia aperte.

“Benvenuto, viandante. Spero tu abbia buone intenzioni.”
Il viandante risponde qualcosa come “nonsonouncultistalogiuro” usando solo i movimenti degli occhi e di una vena del collo.
“Ben detto, ben detto. Dunque, se stai dalla parte dei buoni, rispondi a questa semplice domanda.”
La sala smette di respirare per qualche secondo.
Più di un ospite dell’Ultimo Turno ricordava di aver vissuto la stessa identica scena, ma dalla parte sbagliata della lama. Gli unici rumori, una gocciolina di sudore che si schianta per terra e lo sbuffare di un cavallo.
“Dimmi… è meglio Agricola o Caverna?”

lunedì 18 maggio 2020

Ultimo Turno I

Nuovo tag "Narrativa" per questo racconto molto carino apparso 2 mesi fa su Gioconoauta ad opera di Luccio & Luna. Mi ha ricordato un po' Zerocalcare e La stanza profonda.




di Luccio (e Luna) | Il lato oscuro delle bacche di Everdell – cronache di ludoteca

“Ti spiego, Brando, la maggior parte delle cose che facciamo non si notano…”
Sono Luccio. Quando da piccolo mi chiedevano “cosa vorresti fare da grande” non c’era ancora l’opzione “negoziante di giochi da tavolo”, per cui optavo per i sempreverdi “inventore” o “esploratore”. Arrivato ad un’età più consapevole, mi sono reso conto che l’inventore era un lavoro vero solamente a Paperopoli, e non erano rimaste tantissime terre sconosciute che valesse la pena esplorare, almeno non abbastanza da permettermi di farlo per tutta la vita.
Mi sono trovato una serie di lavori tra il disgustoso e l’orribile, molti dei quali fanno bene a stare fuori dal curriculum, e alla fine l’esploratore l’ho fatto cercando impieghi qua e là, mentre inventore mi è toccato diventarlo per necessità. Ci ho messo un bel po’ a stufarmi, ma alla fine mi sono stabilito nella mia cittadina nel freddo nord e ho dato vita all’Ultimo Turno, una ludoteca aperta quasi sempre, soprattutto di notte, soprattutto per persone strane.
Tra cui i proprietari, mica mi escludo. L’altro sconvolto che lavora con me è Brando, uno degli ex-ragazzini più promettenti dei tempi in cui si andava a giocare a Magic al mai dimenticato Dragone Arrosto, il locale del nostro paese, ormai chiuso dai primi 2000 dopo che la finanza scoprì che non si trattava di una cooperativa agricola.
Brando è il frutto di accurate selezioni. Selezione del personale da parte mia, che mi sono scelto un collaboratore abbastanza giovane e agile da fare tutto quello che il mio fisico dopo i trent’anni si sogna di fare*, ma soprattutto selezione darwiniana, perché se oggi abbiamo un Brando in negozio significa che è riuscito a schivare anni di coltellate sui fianchi, prodotto tipico della nostra piccola città di periferia, esportato poi in tutto il mondo.

*Recenti studi inventati da me affermano che la soglia dell’adolescenza si sta alzando progressivamente, e ha ormai raggiunto i 38 anni, mentre l’anzianità si comincia a percepire intorno ai 30. Esiste dunque una fascia d’età in cui sei contemporaneamente adolescente e anziano, mentre di diventare adulti proprio non se ne parla.

“Dicevo… la maggior parte delle cose che facciamo non si notano. I clienti entrano convinti di essere arrivati nel paese delle meraviglie, hanno infinite scelte davanti a loro e quasi sempre zero idee su cosa vogliano. Noi studiamo i giochi, li proviamo, leggiamo tutte le recensioni, scegliamo quelli che fanno un figurone dentro un kallax e li mettiamo sugli scaffali. A quel punto possiamo spiegare ai clienti cosa vogliono. Se ce n’è bisogno, usiamo dei rafforzativi.”
Brando non aspetta che abbia finito e apre la nuova scatola demo di Everdell. Ne estrae un po’ di pezzi che chiaramente sono fatti per essere incastrati tra di loro, più una manciata di animaletti in legno e dei token di pregevole fattura.
“Il gioco setuppato è maestoso a guardarlo, c’è un alberone gigante di cartone che fondamentalmente non serve a niente, ma se lo vedi lo vuoi. I materiali potevano benissimo essere dei pezzettini di cartoncino scrauso con le fustelle decentrate, e invece il legno è di legno, la resina è di resina e il sasso è di resina anche quello, perché voglio vederti a mettere dei sassi veri nelle scatole e poi spedirli**.”
**Non sono davvero sicuro che sia resina. Probabilmente è plastica. Sicuramente non sasso.

Brando mi fa una domanda che nella sua testa dev’essere stata importantissima.
“E questi cosi viola che sembrano prugne cosa…”
Interrompe la frase nell’esatto momento in cui le sue dita entrano in contatto con uno dei cosi viola, colpito da un’epifania lisergica completa di dilatazione pupillare e un sottofondo di sitar che solo lui poteva sentire.
“Ma sono gommose!” fa notare Brando a una sala vuota.
“Sì, sono di gomma, credo sia quello che le rende gommose.”
“No! Non hai capito! Sono gommose! Gommose!”
Lascio Brando a ripetere a voce sempre più bassa “gommose”, e a contemplare la rotondità perfetta delle bacche di Everdell. Un branco di giocatori di Yugioh si avvicina per ammirare i misteriosi oggetti, mentre due giocatori di Magic si limitano a darci un disinteressato sguardo da lontano.

Entra un cliente con fare ruminante.
“Ciao, cercavo… non so, un gioco.”
Sfoggio il sorriso del mercoledì.
“Sei nel posto giusto! Come lo vuoi?”
La domanda era evidentemente troppo specifica per il contesto.
Me ne sono accorto dalla scritta < n o w l o a d i n g > comparsa negli occhi***.

***La schermata di caricamento è solo il primo dei livelli di blocco psicofisico totale sperimentabili nell’ambito dei giochi da tavolo. Sopra di essa c’è la paralisi da analisi, che si ha quando ci sono troppe informazioni da gestire contemporaneamente nel proprio turno, e si finisce per rimanere fermi a pensare svariate ore, se non giorni, ignorando che gli altri giocatori nel frattempo se ne sono andati. Ancor più pericolosa è l’analisi da paralisi da analisi, cioè quando sei consapevole di essere bloccato e ne stai analizzando le cause, rimanendo bloccato anche su quelle. Il livello più estremo è il bluescreen, ma quello faccio prima a trovare un esempio concreto che a spiegarlo.

“Uno bello”, elabora il cliente bovino.
“Perfetto, ne abbiamo tantissimi di belli! C’è un gioco che hai giocato e ti è piaciuto?”
< n o w l o a d i n g >
Sento uno scatto improvviso provenire da dietro la testa del cliente. La risposta arriva di getto, come se i pensieri fossero stati ingolfati fino un momento prima.
“Puerto Rico. Avete Puerto Rico?”
“Ma magari ne avessi ancora, è esaurito in tutta Europa, ho letto giusto ieri che una spedizione ne ha trovato un rarissimo esemplare intrappolato nei ghiacci dell’Antartide. Posso consigliarti qualcosa sul genere, magari più moderno?”

Sono piuttosto sicuro che sarei riuscito a trovare una copia di Puerto Rico all’estero da qualche fornitore strozzino. Spedizione in 5-8 giorni, pagamento anticipato, consegnato da un corriere che raglia e sgranocchia carote. Al cliente la faremo breve e diremo che non c’è. Colgo l’assist di Brando sulla fascia, che gira verso il cliente la plancia di Everdell e mette in mostra la scatola come neanche le accarezzatrici di materassi di Mastrota sanno fare.

“Questo è Everdell. Si tratta di un gioco di gestione risorse come Puerto Rico, con la differenza che invece di costruire un impero coloniale devi fare la tua città nel bosco, e controlli un clan di animaletti carini. In una partita puoi giocare fino a 15 carte che rappresentano edifici o abitanti del villaggio, e ci sono tantissime combo che puoi sperimentare, quindi altrettanti modi per fare punti.”
Noto che non mi sta più seguendo. Lo sguardo è completamente rapito dalle forme sinuose delle bacche di Everdell.
“…e poi il gameplay è molto fluido, e l’ottimizzazione delle azioni non deve per forza basarsi su una strategia a lungo termine…”
Ne prende una tra le mani, si ferma ad apprezzarne la gommosità, la solleva ad altezza occhi.
“…piuttosto su approccio tattico che potrebbe ricordare…”
La annusa.
Poi la avvicina lentamente alla bocca e spalanca le fauci.
Lo fermo prima che sia troppo tardi.
“No, guardi, non è il caso, non sono commestibili.”
Mi guarda come se gli avessi detto che Babbo Natale non solo non esiste, ma spaccia pure.
Come risposta ricevo solo un “lo compro.”

< n o w l o a d i n g >. Stavolta mio.
“Certamente, le do una borsetta”.
Brando ce la mette tutta per non farmi pesare il gesto atroce che abbiamo compiuto.
“Oh, l’importante è che il cliente sia contento. Il gioco è validissimo, non abbiamo preso in giro nessuno.”
“Abbiamo venduto delle palline di gomma con un gioco in omaggio. Non era esattamente quello che mi immaginavo di fare quando ho aperto questo posto.”
“Stasera lo giochiamo e mi spieghi tutta quella roba dell’ottimizzazione delle azioni.”
“Grazie. Mi farà stare meglio.”
“Figurati, è un piacere.”
“Brando?”
“Sì?”
“Ne stai masticando una.”
Brando sputa lentamente una bacca di Everdell su un fazzoletto senza distogliere lo sguardo, poi la asciuga e la rimette al suo posto.
“Le avevi contate, giusto?” gli domando.
“Sì, erano trenta.”
“Ne mancano ancora due. Sai fare la manovra di Heimlich?”
“Certamente. Io spremo i giocatori di Yugioh.”
“E io quelli di Magic. Domani ricordami che devo scrivere all’Asmodee di farmi mandare delle bacche di Everdell.”
“Secondo te a quanto le fanno al chilo?”
“Spero poco.”

giovedì 14 maggio 2020

Il ritorno di Chris Claremont


Altro articolo preso da lospaziobianco.it, questa volta un approfondimento sul mio sceneggiatore prefertito: Chris Claremont. L'articolo, così come la storia editoriale del beneamato, non è aggiornato, ma d'altronde anche io sono rimasto una trentina di anni indietro, quindi poco male... Propone però alcuni spunti e riflessioni sul fumetto americano che mi sono parsi interessanti!

PRIMA UNA RIFLESSIONE SULLE REGOLE
Il fumetto seriale statunitense ha le sue regole. Alcune di esse sembrano essere immutabili nel corso dei decenni, altre si modificano in relazione ai cambiamenti culturali ed editoriali delle diverse epoche.
Alcuni lavori impongono regole proprie, anticipando alcuni mutamenti in atto, e diventano dei punti di riferimento per l’intero settore. Uno di essi è stato, senza dubbio, Uncanny X-Men della gestione Claremont.
Provo a riassumere in modo estremamente sintetico alcune delle regole che la serie ha imposto sul mercato:
  • ·         continuità stretta e progettata con anni di anticipo;
  • ·         evoluzione psicologica dei personaggi, secondo un movimento narrativo tipico delle soap opera;
  • ·         cambiamento costante degli equilibri strutturali alla serie, sostenuto da un impianto di fondo costante e riconoscibile;
  • ·         costruzione di climax narrativi funzionali a shoccare i lettori;
  • ·         allargamento “a macchia d’olio” della presenza dei concept di fondo della serie e dei suoi personaggi all’interno dell’intero mondo editoriale Marvel (per capitalizzare il più possibile il successo della serie, attraverso miniserie, spin-off e cross-over).

Uncanny X-Men non è stata pioniera su tutti questi temi, ma per anni ha rappresentato una delle massime espressioni e, senza dubbio, la serie di maggiore successo all’interno di questi parametri.
La cosa che credo sia importante evidenziare da subito, è che la testata impone tali regole in funzione del suo successo e che, contemporaneamente, tali regole sono la condizione essenziale per il successo stesso. Insomma, un meccanismo virtuoso che si auto-alimenta fino a far diventare la serie di Chris Claremont il successo editoriale più clamoroso e longevo della storia moderna dei comics di supereroi.

IL CAMBIAMENTO E IL SUCCESSO NEL FUMETTO SERIALE
Il tema che mi interessa trattare in questo articolo riguarda il cambiamento, l’evoluzione narrativa della serie.
Chiunque non conosca il mondo degli X-Men classici di Claremont, dovrebbe prendere in mano l’intero ciclo di storie realizzate in coppia con John Byrne, il cui culmine narrativo è rappresentato dalla saga di Fenice Nera. I mutanti di Claremont e Byrne, agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso, sono uno dei migliori esempi della concezione moderna del fumetto seriale americano: un progressivo e costante rinnovamento e ribaltamento degli equilibri interni alla serie, sostenuto da uno scenario di base costante e riconoscibile.
Tale scenario, che potremmo chiamare pre-testo narrativo, è costruito attraverso alcuni semplici idee:
  • ·         la classica lotta tra Bene e Male (che supera tuttavia le schematizzazioni manichee e moraliste della golden age, attraverso un relativismo etico dinamico e realistico);
  • ·         il razzismo verso qualunque cosa sia classificato come diverso;
  • ·         il multiculturalismo dei personaggi (che trova il suo riflesso speculare nella polifonia di voci e di caratteri che si incontrano/scontrano storia dopo storia);
  • ·         la riflessione “politica” sul concetto di potere e di controllo (e di perdita di controllo).

Il pre-testo ha rappresentato un importante elemento di novità, non solo per lo specifico dei suoi contenuti, ma soprattutto per la consapevolezza e la maturazione che ha raggiunto nel corso degli anni, a un livello prima impensabile in altri fumetti seriali. Si tratta di uno scenario flessibile ma riconoscibile, stabile ma sufficientemente aperto da favorire continue evoluzioni e “rivoluzioni” narrative, che hanno attraversato negli anni le vicende dei personaggi degli X-Men.
È proprio nell’equilibrio tra pre-testo costante e rivoluzioni narrative che si spiega il successo della serie degli X-Men. Al lettore, il gusto di ritrovarsi a suo agio all’interno di tematiche riconoscibili e familiari (alcune delle quali poste già a fondamento nella serie classica degli X-Men di Stan Lee e Jack Kirby) e di sorprendersi numero dopo numero nello scoprire cosa potesse succedere ai personaggi tanto amati.
Alcuni esempi: la perversione “metafisica” di Jean Grey nella saga di Fenice Nera; il futuro apocalittico di Giorni Di Un Futuro Passato; le evoluzioni personali di Wolverine, teso tra un’improbabile ricerca di equilibrio interiore e la sua sete di sangue; il rapporto contraddittorio e mutevole tra Xavier e Magneto; l’inserimento nel gruppo di personaggi difficili, se non ambigui, come Rogue e l’evoluzione caratteriale al limite della schizofrenia di altri protagonisti, come Tempesta.
Per anni, chi prendeva in mano un numero degli Uncanny X-Men si chiedeva cosa sarebbe successo di nuovo quella volta.

IL PUNTO DI NON RITORNO, LA MARVEL COMICS NON È PIÙ D’ACCORDO
Claremont ha spinto a tal punto in avanti tale impostazione, da provocare scossoni narrativi ed editoriali eclatanti, come il periodo di “invisibilità” nel ritiro australiano, iniziato su Uncanny X-Men #229 (e la scomparsa dei mutanti da tutte le serie Marvel), o come quello che, in definitiva, ha portato alla rottura dello sceneggiatore con la Marvel Comics nel periodo in cui la direzione era affidata al “normalizzatore” Bob Harras (cambiamenti che avrebbero previsto, tra l’altro, la morte della superstar Wolverine).
È osservando tali cambiamenti e lo show-down finale che ha portato, nel 1991, alla dolorosa separazione tra Claremont e la Marvel, che ci è possibile comprendere il paradosso che caratterizza il fumetto seriale statunitense da decenni. Il successo di una serie come Uncanny X-Men si è costruito attraverso l’innovazione, la sorpresa, e lo choc verso il lettore; tale successo tuttavia, a un certo punto deve essere salvaguardato dalla dirigenza editoriale e porta a una progressiva restrizione della libertà creativa, imponendo vincoli, paletti e condizioni che si riflettono sulla qualità intrinseca della serie. La stessa nel tempo perde le proprie caratteristiche dinamiche fino a diventare un prodotto ripetitivo e stanco, esaurendo mortalmente i suoi autori e i lettori.
Claremont ha avuto la forza di mantenere, anche nei momenti di maggiore condizionamento editoriale da parte della dirigenza, la lucidità e la forza (contrattuale) di imporre almeno in buona parte le proprie scelte, fino al punto di non ritorno della gestione Harras, che ha imposto un sostanziale congelamento, attraverso cross-over e saghe a ripetizione, normalizzando le dinamiche narrative dell’intero universo mutante, ponendo malamente l’accento sull’ingrediente sbagliato della formula vincente: la spettacolarizzazione dei disegni e dei “fenomeni” emergenti in quegli anni (Jim Lee e Marc Silvestri su tutti).
Le idee di Claremont sono, col senno di poi, in completa continuità con quanto realizzato e sviluppato negli anni precedenti, e non rappresentano di certo scelte particolarmente clamorose o innovative. L’autore aveva semplicemente proseguito, anche negli ultimi mesi della propria gestione, a rivalutare il suo patrimonio narrativo attraverso il cambiamento, per colpire il lettore e non annoiare se stesso. Peccato che l’irrigidimento editoriale ed economico della Marvel ha impedito l’assorbimento e la comprensione di tale ennesima evoluzione.

PER SEMPRE MARVEL, UN TRISTE RITORNO A CASA
La storia dice che dopo la separazione dalla Marvel, Claremont è andato incontro a una successione di imprevedibili insuccessi, prima in casa DC Comics, poi nel ritorno alla Casa delle Idee. Pubblicità, commozione e nostalgia a parte, il ritorno di Claremont sulla serie regolare degli X-Men è un disastro. Lo sceneggiatore non solo appare incerto nell’impostare gli scenari di base, all’interno di un caos narrativo frutto di una serie infinita di gestioni sbagliate dei personaggi da parte dell’editore, ma soprattutto emerge con chiarezza l’inattualità del suo stile narrativo, che sembra la caricatura dell’impostazione che lo rese famoso: l’epica diventa boria, il pathos noia e così via. I comics erano già cambiati, e molto, e l’autore non sembra in grado di trovare un posto.
Parzialmente più felice, ma comunque dimenticabile, la sua breve gestione dei Fantastici Quattro, che ha preceduto il ritorno ai mutanti, dove se non altro l’autore ha mostrato di sapersi ancora divertire, privo dalla pesante eredità di un confronto con il suo lavoro precedente.
In ogni caso, Claremont è tornato per restare. Una ricompensa tardiva per il monumentale lavoro svolto negli anni passati e per la quantità imbarazzante di soldi che aveva portato nelle casse della Marvel Comics.
La gestione della serie Exiles o il ritorno sull’agonizzante Excalibur sono a loro volta dimenticabili parentesi di una carriera ormai in declino, prima che Joe Quesada decida di dare all’autore lo spazio per riprendere le fila di quanto aveva lasciato in sospeso negli anni ’90, al momento del divorzio con la Casa delle Idee.

PER SEMPRE X-MEN, OVVERO LA FINE DEL FUMETTO SERIALE
X-Men Forever è la serie ideale per qualunque nerd dei fumetti, dall’impianto “volutamente” nostalgico e dove le vecchie idee di Claremont hanno l’opportunità di trovare nuova luce, a partire dalla “sconvolgente” morte di Wolverine.
Nella serie, iniziata nel giugno del 2009, Claremont è fedele al suo motto e sviluppa, nel giro di due cicli narrativi, una serie di cambiamenti straordinari e, per molti versi, difficilmente comprensibili.
X-Men Forever è una serie paradosso: fuori dalla continuity ufficiale della Marvel Comics (concetto che, come ha più volte dimostrato Grant Morrison, non ha più nessuna attualità) ha l’ambizione di tornare a sviluppare temi vecchi di vent’anni. Una serie che “non esiste” vuole rinnovare concetti e percorsi narrativi ormai dimenticati. Siamo nella piena, totale involuzione del concetto di serialità, che appare per molti versi come l’ultimo, straziante canto del cigno di un’epoca.
Lo sceneggiatore si impegna e sembra giocare con rinnovato entusiasmo, ma il meccanismo è ormai rotto. La sensibilità ha perso qualunque contatto con il reale e non riesce a toccare in alcun modo l’emozione del lettore. Le idee appaiono non solo invecchiate, ma tutto sommato decisamente ridimensionate dal tempo, e dalle tante, reali innovazioni che sono avvenute negli anni (anche nella famiglia dei mutanti, basti pensare alla gestione Morrison).
Claremont, come emerge anche dalle interviste rilasciate di recente (compresa l’ultima, resa in esclusiva per Lo Spazio Bianco), appare amareggiato e posseduto da un rimpianto insanabile che si riflette nell’impostazione delle sue storie. L’autore sembra costantemente in lotta per ritrovare il momentum ormai sparito; sembra più interessato a rivivere il passato che a raccontare qualcosa di nuovo.
X-Men Forever è quindi un monumento funebre a un’idea di fumetto seriale che non è più attuale. È un viaggio nostalgico che non emoziona per i suoi contenuti narrativi, ma per il senso di straniamento e di malinconia che caratterizza ogni parabola discendente. Ed è, in definitiva, un grande insegnamento sul paradosso della condizione umana, la creatività e la serialità: niente è destinato a ripetersi senza rinnovarsi, il rinnovamento è un’illusione.

lunedì 11 maggio 2020

X-Men: 50 (+7) anni e non sentirli

Riporto una serie di articoli da lospaziobianco.it su una delle nostre passioni rimaste finora  fuori dal blog (se non per 3 miseri post): i fumetti! In particolare mi è capitata sottomano questa serie di articoli sui miei amatissimi X-Men che ne ripercorre la storia editoriale, e che ho trovato  molto interessante per rinfrescarmi le idee, dato che la Disney ne ha acquistato i diritti dalla Sony e che spero diventino quindi i protagonisti di una delle prossime saghe del Marvel Cinematic Universe (anche se i vecchi film non erano malaccio)! Buona lettura.


“Chi sono gli X-Men, mi chiedete? Un gruppo di supereroi mutanti, riuniti dal professor Charles Xavier per il duplice scopo di cercare altri come loro e aiutarli a imparare a utilizzare le loro abilità per il bene della società. E, inoltre, per proteggere la società stessa dalla minaccia di mutanti malvagi”. Queste sono le parole fatte pronunciare da Chris Claremont a Kitty Pride, una dei più importanti elementi del supergruppo mutante, in “A Day Like Any Other” pubblicata nello “X-Men Special Edition” del febbraio 1983. Definizione migliore non può esserci.

Un po' di basi
Gli X-Men sono creati nel 1963 da Stan Lee e Jack Kirby, prendendo spunto dall’idea alla base di un supergruppo pubblicato dalla DC Comics nel numero 80 della testata My Greatest Adventure, la Doom Patrol di Bob Haney e Arnold Drake. Protagonisti della serie DC sono tre giovani invisi al mondo a causa dei loro superpoteri, che sono guidati nelle missioni da Niles Caudler, ingegnere paraplegico che si muove in sedia a rotelle.In The X-Men#1, del settembre 1963, s’introduce Charles Xavier, lui stesso mutante telepate e professore filantropo di mezza età su una sedia a rotelle che, nella sua tenuta al numero 1407 di Graymalkin Lane a Salem Center, nella contea di Westchester (stato di New York), sede di una scuola per giovani dotati, accoglie cinque adolescenti: Jean Grey, Scott Summers, Henry Philip “Hank” McCoy, Robert “Bobby” Drake e Warren Worthington III.  Questi ragazzi sono speciali poiché il loro codice genetico è dotato di un gene “x”, mancante nella maggior parte degli esseri umani, che fornisce loro straordinari poteri mutanti. Da qui la “X” del nome del gruppo, a indicare il potere “extra” (“x” in inglese si pronuncia “ex”) che i mutanti possiedono, oltre ad alludere al fatto che tali mutazioni sono il risultato di un’esposizione alle radiazioni, tipica causa di acquisizione della maggior parte dei superpoteri nei fumetti degli anni 60.

Lee e Kirby se da una parte fanno in sostanza una copia-carbone del Prof. Niles per il loro Charles Xavier, dall’altra apportano due modifiche rispetto alla controparte DC che, negli anni, si riveleranno vincenti per i mutanti di casa Marvel: compongono il gruppo con adolescenti, abbassando l’età media rispetto ai protagonisti della Doom Patrol e, soprattutto, cambiano l’origine dei poteri dei protagonisti. Combinata con questa scelta c’è l’idea del parallelismo tra adolescenza e mutazione: giovani che vedono il loro corpo e la loro mente trasformarsi in modi che non capiscono e che talvolta non accettano perché il mondo e la società dove vivono non li accetta.

GLI ANNI 60: PRIMA GENESI E DECLINO
Nei primi numeri della testata The X-Men (che in origine avrebbe dovuto chiamarsi i Mutanti) oltre ai cinque membri della squadra originaria (Marvel Girl, Ciclope, Bestia, Uomo Ghiaccio e Angelo) è introdotto il loro arcinemico per antonomasia, Magneto e il suo gruppo, la Confraternita dei Mutanti Malvagi, composta da Mastermind, Toad, Quicksilver e Scarlet Witch, questi ultimi due figli dello stesso Magneto. 
I temi affrontati in queste storie iniziali sono, oltre al classico bene vs male, il pregiudizio, la discriminazione, l’odio razziale e la paura della diversità.
In questi primi anni il titolo non riesce a vendere come altri albi della Marvel (Fantastic Four e Amazing Spider-Man su tutti) e nel 1966, Lee & Kirby lasciano la testata. Durante questa run è da mettere in evidenza l’esordio del mutante irlandese Sean Cassidy, a.k.a. Banshee, nel numero 28. 
Dal numero 58 si torna nuovamente alla singola storia per albo e la presenza di un team regolare di autori, Thomas e Adams, donano alla testata un leggero aumento delle vendite grazie allo svecchiamento delle storie e alla presenza regolare di due nuovi protagonisti introdotti nei numeri precedenti: il fratello di Scott Summers, Alex a.k.a. Havok, creato da Thomas, e Lorna Dane (che in seguito assumerà il nome di battaglia di Polaris), creata da Drake. 
Tuttavia la Marvel ha già preso la propria decisione sul destino della testata e il numero 66 è l’ultimo che contiene storie inedite poiché dal successivo e ininterrottamente per cinque anni fino al numero 93 dell’aprile 1974 X-Men conterrà ristampe delle vecchie storie.

GLI ANNI 70: SECONDA GENESI
Nonostante le ristampe, le vendite della testata non scendono mai sotto la soglia minima oltre la quale per la Marvel scatta la chiusura e, inoltre, i vari eroi mutanti continuano ad apparire frequentemente in altre testate come Amazing Spider-Man e Avengers. Così nel 1975 ai piani alti della Casa delle Idee decidono di dare un’altra possibilità agli X-Men e nel mese di maggio viene dato alle stampe Giant Size X-Men#1 con Len Wein ai testi e Dave Cockrum alle matite. I due autori introducono un nuovo gruppo di Uomini X, molto diverso dall’originale in quanto formato completamente da adulti provenienti da varie parti della Terra, tutti con un bagaglio culturale e filosofico differente e, soprattutto, tutti già addestrati all’uso dei propri poteri mutanti. La storia contenuta nello speciale, divisa in quattro capitoli, presenta il Prof. Xavier che, per salvare il team originale prigioniero sull’isola vivente di Krakoa, gira il mondo per reclutare un nuovo gruppo. Alla fine dell’avventura del team originale resta soltanto Ciclope e la nuova squadra X sarà composta da Colosso (Piotr Nikolaievitch Rasputin), proveniente dall’Unione Sovietica, Nightcrawler (Kurt Wagner), tedesco occidentale, Tempesta (Ororo Munroe), keniana e Thunderbird (John Proudstar), nativo americano della nazione Apache. A questi personaggi, tutti qui alla prima apparizione, si affiancano poi Banshee, il giapponese Shiro Yoshida, a.k.a Sunfire (che aveva fatto il suo esordio in X-Men#64) e soprattutto il canadese Wolverine che aveva fatto la sua prima apparizione su The Incredible Hulk#180 nel 1974.


Quest’albo speciale ha talmente successo che la Marvel, mentre in un primo momento pareva intenzionata a proseguire con un secondo numero di Giant Size X-Men, decide invece di rilanciare la testata The X-Men con storie inedite, mettendo in cabina di regina un giovane autore di origine britannica (anche se cresciuto negli USA) che si sta distinguendo sulla collana dedicata al personaggio di Iron Fist: Chris Claremont. La scelta di un autore semiesordiente è spinta anche dalla considerazione di non “bruciare” la carriera di qualche sceneggiatore più famoso, nel caso questa nuova incarnazione della serie mutante segua il trend negativo della precedente.

Claremont parte subito con il botto e già nel secondo numero della sua gestione, il 95, fa morire uno dei nuovi elementi degli X-Men: Thunderbird (sebbene la sua morte fosse già stata comunque pianificata da Len Wein, autore dei soggetti dei numeri 94 e 95). Da quel momento in poi per l’autore è un continuo crescendo di storie e saghe che vedono il ritorno in scena delle Sentinelle, l’emergere della Fenice (#101), l’introduzione degli Starjammers (#107) e di Alpha Flight (#120) e la saga di Proteus (#125-128), oltre all’introduzione di personaggi comprimari come Amanda Sefton (#98), l’Uomo Multiplo, Mystica e Moira MacTaggert (#96). Claremont tratta i suoi personaggi come veri esseri umani, ne approfondisce la psiche, le motivazioni, i comportamenti, siano essi quelli dei supereroi che quelli delle loro controparti malvagie in una linea di demarcazione che nelle storie diviene sempre più sottile e di difficile individuazione. All’azione vera e propria nelle pagine di X-Men si sostituisce una sorta di soap-opera mutante con trame e sottotrame che si sviluppano e s’intrecciano anche per decine di numeri prima di arrivare a una risoluzione (e che mi ha fatto amare questa testata!!!n.d.r.).

GLI ANNI 80: L’ERA CLAREMONT


Nel 1980 Chris Claremont dà il via a una delle sue run più ambiziose e famose, la Saga della Fenice Nera, che si sviluppa per ben dieci numeri, dal numero 129 al 138 di X-Men. Dopo che Jean Grey ha ottenuto i poteri semidivini della Fenice, essa rimane vittima della corruzione del proprio potere e, manipolata mentalmente da Mastermind, diventa Fenice Nera e nella sua sete di distruzione annienta un intero pianeta alieno. Inizia così il decennio d’oro per gli X-Men, con la testata che dal numero 114 ha cambiato il nome in Uncanny X-Men e diventa il titolo mensile più venduto della Marvel. Alla saga della Fenice Nera seguono altre importanti storylines come Giorni Di Un Futuro Passato (#141-142), la saga di Deathbird e della Covata (#155-157 e 161-166), la scoperta del popolo mutante sotterraneo dei Morlocks (#169) e il Processo di Magneto (#200).
Nel 1982 Claremont scrive, al di fuori della testata regolare, una graphic novel con protagonisti gli X-Men, disegnata da Brent Anderson: Dio Ama, L’Uomo Uccide.

In questi dieci anni tanti sono i personaggi che vanno a popolare l’universo mutante della Marvel a cominciare da Katherine Anna “Kitty” Pride/Shadowcat (#129), Alison Blaire/Dazzler (#130), Forge (#184), Longshot, Elizabeth “Betsy” Braddock/Psyloche, Rogue, Rachel Anne Summers/Fenice, Jubilation Lee/Jubilee (#244) fino a villains del calibro del Club Infernale (#129), Madelyne Prior (#168), Apocalisse, Sinistro (#221), Mojo e Sabretooth. Tra le scelte narrative da ricordare sicuramente vanno menzionate la decisione di Xavier di partire per lo spazio insieme all’amata Lilandra e lasciare Magneto alla guida della Scuola per giovani dotati e l’avvicendamento a capo degli X-Men di Tempesta al posto del leader storico Ciclope.

Gli anni ’80 sono anche il periodo della nascita e dello sviluppo dei comic shop, negozi specializzati nella vendita di fumetti, e la Marvel legandosi a questo evento e alle ottime vendite di Uncanny X-Men spinge per la creazione di nuove X-testate.
La prima a esordire è The New Mutants (marzo 1983), seguita da Alpha Flight (agosto 1983), dedicata a un gruppo mutante canadese, X-Factor, con il gruppo X originale (febbraio 1986), Excalibur (ottobre 1988), ambientato in Gran Bretagna, e Wolverine (novembre 1988). Sfruttando il numero sempre maggiore di serie mutanti e le obbligate connessioni che esse hanno tra loro, Claremont dà il via a una serie di eventi crossover (o X-over) tra le varie testate, con cadenza annuale. Ecco nascere dunque il Massacro Mutante, seguito dalla Caduta dei Mutanti e da Inferno.

GLI ANNI 90: IL BOOM DI VENDITE
All’inizio dell’ultimo decennio del secolo scorso, Uncanny X-Men vende qualcosa come 500.000 copie ogni mese e quelli mutanti sono i titoli blockbuster della Marvel. Claremont è affiancato da un disegnatore sempre più acclamato dai fan, Jim Lee, ma entra sempre più spesso in contrasto con l’editor della testata, Bob Harras, che interviene frequentemente nella modifica di storie, personaggi e anche maxisaghe pensate dallo scrittore. Quando la Casa delle Idee decide di lanciare un secondo albo mensile dedicato agli X-Men, Claremont e Harras sono ormai ai ferri corti per questioni creative: l’editor vuole riportare nelle storie il prof. Xavier, personaggio mai amato da Claremont che lo aveva allontanato dal palcoscenico principale. A questo si aggiunga che l’autore ha in mente tutta una serie di sviluppi per i suoi personaggi che vanno contro quanto la casa editrice vuole in quel periodo: sfruttare il più possibile il fenomeno mutante per incassare più soldi possibile. Molte delle idee di Claremont, prima tra tutte il fare diventare Wolverine un personaggio malvagio per poi ucciderlo, vanno contro questa politica e così, dopo sedici anni ininterrotti alla scrittura delle x-storie, Claremont decide di andarsene dalla Marvel.
Lo fa scrivendo il suo “testamento editoriale” nei primi tre numeri della nuova testata che si affianca a Uncanny dall’agosto 1991, X-Men, il cui primo numero è a tutt’oggi il singolo albo a fumetti più venduto della storia con circa tre milioni di copie vendute e almeno sette milioni e mezzo di copie preordinate dalle fumetterie statunitensi (l’albo esce con cinque diverse cover che unite assieme formano un’unica immagine).

Le due testate vedono protagonisti gruppi distinti degli X-Men: su Uncanny tornano il prof. Xavier e Ciclope formando il “blue team” composto da Bestia, Wolverine, Rogue, Gambit e Psylocke, mentre sulla nuova testata esordisce il “gold team” con a capo Tempesta e formato da Marvel Girl, Uomo Ghiaccio, Arcangelo e Colosso. Entrambi i gruppi sono coordinati dallo stesso Xavier aiutato da Banshee, Forge e Jubilee.
La nascita di X-Men porta con sé una piccola rivoluzione delle altre testate mutanti con The New Mutants che si trasforma in X-Force, scritta da Fabian Nicieza e Rob Liefeld e disegnata da quest’ultimo, e X-Factor che è affidata a Peter David e Larry Stroman con protagonista un gruppo completamente nuovo poiché i membri originari sono tornati, come detto, negli X-Men.
In seguito le redini delle due testate passano a Scott Lobdell (Uncanny) e Fabian Nicieza (X-Men), che rimangono a lungo, il primo fino al 1997 e il secondo fino al 1995. Tra i disegnatori all’opera, in questo periodo, sui mutanti sono sicuramente da segnalare Andy Kubert e John Romita Jr.

Durante quegli anni gli X-Men rimangono sulla cresta dell’onda, continuando a incrementare le loro vendite e le maxi saghe crossover da ricordare di questo decennio sono molteplici. Partendo da Programma Extinzione e la Muir Island Saga, quando ancora le storie erano scritte da Claremont, si passa alla Canzone dell’Executore, Attrazioni Fatali, Phalanx Covenant, L’Era Di Apocalisse (la mia avventura fuemttistica con gli X-men si èfermata qui. n.d.r.), Onslaught e Operazione: Nessuna Tolleranza.
I personaggi che entrano in scena in questi anni sono tutti di primo piano a cominciare da Cable, Gambit (UXM#266) e Alfiere (UXM#282) e, come è logico aspettarsi, spopolano le miniserie dedicate a vari personaggi mutanti, la maggior parte delle quali di qualità inferiore alle testate regolari. Eventi di prim’ordine da ricordare in questo periodo sono sicuramente il matrimonio di Jean Grey e Scott Summers (XM#30) e la perdita dell’adamantio da parte di Wolverine per opera di Magneto nel crossover Attrazioni Fatali.

Dal 1999 è Alan Davis che si occupa sia dei testi sia dei disegni della serie X-Men e delle sceneggiature di Uncanny. Durante la gestione Davis le due testate funzionano come un unico albo bisettimanale con le storie che spesso sono uniche e passano da un titolo all’altro.
La fine del millennio vede un lento declino nelle vendite delle testate mutanti, anche a causa del continuo avvicendarsi di vari autori con stili e approcci diversi alle storie, e la continua emorragia di lettori che puntano sempre più su altri titoli, convince la Marvel a operare un rilancio degli X-Men.

GLI ANNI 2000: LA RINASCITA

Puntando anche sul ritorno di Claremont alla Casa delle Idee (nel 1998 ai testi dei Fantastici Quattro), si decide di operare un taglio netto con il recente passato mediante l’evento Revolution che si sviluppa su tutti gli albi mutanti nel maggio del 2000 e crea un “gap” narrativo di sei mesi tra due numeri consecutivi di ogni testata. Questo espediente permette a Claremont di ripartire da zero sia su Uncanny (dal numero 381) che su X-Men (dal numero 100), dividendo nuovamente gli X-Men in due gruppi, mettendo da parte molti dei personaggi nati dopo il suo abbandono del 1991, recuperandone alcuni secondari della sua passata gestione e portandoli in primo piano.
Claremont commette tuttavia alcuni passi falsi in questa sua seconda gestione degli Uomini X, come il ritardare la spiegazione dei fatti intercorsi nei sei mesi non raccontati, ad esempio il perché Jean Grey e Psylocke si fossero scambiate i poteri ed è anche costretto a adattare i suoi piani all’imminente uscita del primo film sugli X-Men, per rendere più accessibile la serie ai neofiti.
Tutto ciò porta numerose critiche da parte dei lettori e di riviste e siti specializzati e quando Joe Quesada diventa editor in chief della Marvel, con nuove idee di sviluppo per l’universo mutante, propone a Claremont di concentrarsi su una sola delle X-testate oppure di crearne una ex novo con un gruppo di X-Men in missione lontani dallo Xavier Institute. L’autore sceglie questa seconda ipotesi e dopo solo nove mesi diventa lo sceneggiatore di X-treme X-Men.

L’evento di questo periodo è sicuramente l’approdo alla guida della testata X-Men del “Mago di Glasgow”, lo scozzese Grant Morrison. Sostenuto nella parte grafica da artisti del calibro Frank Quitely, Igor Kordey, Ethan Van Sciver, J.P. Leon  e altri artisti del genere, Morrison rivoluziona lo status quo mutante introducendo moltissime novità a cominciare dalle nuove uniformi nere in kevlar che si richiamano a quelle indossate dagli X-Men nel film loro dedicato.
L’autore rompe con il passato e dà un tono più serio, cupo e realistico alla serie iniziando subito con il primo blocco di storie “E is for Extinction” (NXM#114-116) dove una nuova criminale, Cassandra Nova, sorella malvagia di Xavier, distrugge l’isola-stato di Genosha uccidendo 16 milioni di mutanti. Proprio alla fine di quest’arco narrativo Morrison fa poi fare “outing” al Prof. Xavier che, controllato mentalmente dalla sorella, rivela al mondo intero di essere un mutante, aprendo le porte del suo istituto pubblicamente a tutti i mutanti che vogliono imparare a controllare i propri poteri e creando varie scuole collegate in tutto il mondo. A Morrison dobbiamo anche l’inizio della relazione tra Scott ed Emma Frost, quando ancora il primo era sposato con Jean Grey e la morte di quest’ultima, uccisa da Magneto.

Lo sceneggiatore scozzese decide poi di passare alla DC Comics e abbandona le X testate nel 2004, segnando, di fatto, l’inizio di un nuovo, ennesimo rilancio dei titoli mutanti. L’errore che tuttavia commette la Marvel in questo rilancio mutante è quello di tenere le tre serie completamente distinte e indipendenti l’una dall’altra, causando palesi incongruenze nella continuità generale dell’universo mutante.
Col maxi evento Marvel del 2005: House of M, Brian Michael Bendis, deus ex machina dietro il rilancio dei Vendicatori, scrive questo crossover estivo per le matite di Oliver Coipel e narra la storia di un mondo dove i mutanti sono la maggioranza della popolazione creato dai poteri di Wanda Maximoff/Scarlet, figlia di Magneto. Nell’epilogo della saga tutti gli eroi del Marvel Universe si oppongono alla Casata di M (la famiglia di Magneto) e la storia si conclude con la frase magica di Scarlet che è il punto di partenza dell’ennesimo, scontato, rilancio mutante: “No more mutants!”, basta mutanti.
I mutanti presenti sulla Terra sono ridotti ad appena 198, ottenendo in questo modo un duplice risultato: da un lato si riduce drasticamente il numero di personaggi mutanti (anche lo stesso Charles Xavier perde i propri poteri) che ormai saturano l’universo Marvel, la maggior parte dei quali erano utilizzati, dopo la creazione, per un paio di storie e poi lasciati nel dimenticatoio. Dall’altro si centra l’obiettivo che ha più a cuore Quesada, quello di far tornare i mutanti a essere dei reietti, emarginati dall’Homo Sapiens, tornato di nuovo a essere la razza predominante. Di fatto l’editor in chief della Marvel annulla una delle novità che Morrison aveva introdotto all’inizio della sua run sugli X-Men, quando la Bestia scopriva che nel giro di pochi decenni gli Homo Sapiens si sarebbero estinti lasciando il pianeta delle mani dell’Homo Superior la cui popolazione stava crescendo sempre più.

Passano un po' di anni con un'alternanza di autori/disegnatori/testate...

A Giugno del 2009 la Marvel pubblica la testata X-Men Forever scritta da Chris Claremont nella quale l’autore dovrebbe proseguire le trame narrative che aveva in mente nel 1991 quando ha abbandonato gli X-Men. La serie è preceduta da un one-shot X-Men Forever Alpha che ristampa i primi tre numeri di X-Men, del 1991, e che conducono direttamente a quanto narrato all’inizio della nuova serie. Tuttavia, quella che in teoria doveva essere la storia degli X-Men se Claremont fosse rimasto a scrivere le loro avventure, presto si trasforma in un titolo da “universo alternativo” e lo stesso autore ammette che le storie narrate nella testata sarebbero comunque state impossibili da narrare anche dieci anni prima senza minare le fondamenta del mondo mutante del Marvel Universe.

Ad Aprile del 2012 inizia tuttavia l’evento definitivo che darà il via a quella sorta di “light reboot” chiamato Marvel Now Revolution (la progressiva chiusura delle varie testate, mutanti e non, e il loro nuovo inizio con team creativi nuovi di zecca): Avengers VS X-Men. Questa maxi saga in dodici parti, nella quale vengono finalmente risolte tutte le varie sottotrame ancora aperte dai tempi di House of M, viene scritta a più mani da B.M. Bendis, Jason Aaron, Ed Brubacker, Jonathan Hickman e Matt Fraction, con ai disegni John Romita jr., Oliver Coipel e Adam Kubert, e vede il ritorno sulla Terra dell’entità Fenice alla ricerca di un nuovo ospite per la sua forza, ha individuato in Hope Summers (la prodigiosa bambina nata dalla decimazione dei mutanti alla fine di House of M). I Vendicatori e gli X-Men si confrontano sui modi di protezione della ragazza mutante. Nel corso della mini Hope prova a ricevere la forza della Fenice, ma incapace di controllarla viene colpita da Iron Man che, invece di ucciderla, scinde l’entità cosmica in cinque parti che si impossessano di Ciclope, Emma Frost, Colosso, sua sorella Magik e Namor.
I cinque sono corrotti dal potere cosmico e, alla fine, Ciclope si trasforma nella Fenice Nera e uccide il suo mentore, Charles Xavier. Alla fine Hope, con l’aiuto di Scarlet, riesce a sconfiggere e a disperdere la forza della Fenice e Capitan America pone Scott Summers agli arresti per l’omicidio del Professor X.





OGGI: L’ARRIVO DI BENDIS E LA "MARVEL NOW REVOLUTION" MUTANTE
Nell’ottobre del 2012, a seguito della conclusione di AvX nella Casa delle Idee parte l’iniziativa Marvel Now! con l’ingresso di nuovi titoli, l’azzeramento della numerazione della maggior parte delle testate e lo stravolgimento dei vari team creativi.
Gli X-Men, assieme ai Vendicatori, fanno da padroni in questa iniziativa con nuove testate e quelle esistenti stravolte. I titoli che continuano la corsa con la stessa numerazione sono Wolverine and the X-Men, con Aaron ai testi e Bradshaw ai disegni e l’inossidabile X-Factor di Peter David e Leonard Kirk.

Con una pletora di nuove serie aperte, a cinquanta anni dalla nascita gli X-Men sono dunque più vivi che mai, sempre più pilastro portante del Marvel Universe e ben lungi dall’avere risolto i problemi di coesistenza con l’homo sapiens. E questo non può fare che ben sperare per altri cinquanta anni di avventure mutanti.

lunedì 4 maggio 2020

La trimurti vintage del gioco da tavolo

Ero convinto di aver già scritto qualcosa in merito, ma con una rapida ricerca sul blog mi sono accorto che mancava un post dedicato. Ho deciso di colmarlo con questo bel sunto preso da L'antro atomico del Dr. Manhattan!

HEROQUEST E I SUOI FRATELLI: I GIOCHI DA TAVOLO MB CON MINIATURE E IL GENUINO MOMENTO EMOZIONE© CHE TI TIRANO ANCORA DIETRO

Questa è la meravigliosa storia dei giochi da tavolo MB con miniature creati con Games Workshop, di HeroQuest e dei suoi due fratelli StarQuest e Battle Masters. Di serate in cui con i tuoi amici o tuo fratello si trasformava il tavolo della cucina o il pavimento del salotto in un dungeon, un campo di battaglia fantasy, un'avventura nello spazio profondo. Cercando di non far crepare il nano, di sconfiggere quei maledetti alieni e di non far cascare per la 653esima volta le dannate miniature dei cavalcatori di lupi...
Tutto ha inizio il primissimo giorno dell'estate del '90. Sei a casa di un tuo amico degli scout, avete finito le pizze e al Bentegodi la Spagna ha appena battuto due a uno, grazie a un calcio di rigore, il Belgio di quello che avevate eletto idolo della serata, il grande portiere Preud'homme. Ma solo perché aveva questo nome da deodorante.
Il padrone di casa tira fuori un gioco da tavolo. Si chiama HeroQuest.


Riavvolgi. Qualche anno prima, Stephen Baker propone alla filiale inglese della Milton Bradley (MB), azienda del Massachusetts che ha di fatto lanciato il gioco da tavolo nel remoto 1861, un nuovo gioco basato sulle miniature Games Workshop. La MB, che dall'84 è di proprietà della Hasbro, ha già alle spalle dei giochi da tavolo scenografici e di grande impatto, come Brivido (la cui prima versione, Castello incantato/Which Witch?, è nata nel 1970) o L'Isola di Fuoco (1986), ma HeroQuest - che debutta in Europa nell'89 e in Nord America l'anno dopo - è diverso.


Un board game di avventura che sposa le dinamiche da GdR fantasy, con un master stregone (Morcar, ma negli USA diventa Zargon) che crea il suo dungeon grazie a una serie di componenti, e quattro eroi - barbaro, nano, elfo e mago - chiamati a sfidarlo e a sconfiggere le forze del Caos. Ci sono le trappole, ci sono gli incantesimi del mago e dell'elfo, ci sono i combattimenti con i dadi. Ci sono le miniature, create per Games Workshop da Citadel. C'è che quella sera ci giocate fino a tardissimo, e HeroQuest diventa un appuntamento fisso per tutto il resto di quell'estate, pur priva sulla volata finale di notti magiche.
Non avevi (e non avresti neanche in seguito, you know) mai giocato a un GdR cartaceo e quello era il tuo primo impatto con quel tipo di gioco, con le miniature Games Workshop, con la voglia di menare un master stronzo, legittimata dalla struttura 4 vs 1. Usavi sempre il barbaro, e l'avevi ribattezzato Conad. Lasciamo correre.

Il successo di HeroQuest dà vita a tutta una serie di espansioni, che aggiungono nuove imprese, miniature e tasselli per il dungeon: La Rocca di Kellar (Kellar's Keep, 1989), Il Ritorno del Signore degli Stregoni (The Return of the Witch Lord, 1989), L'Orda degli Ogre (Against the Ogre Horde, 1990), I Maghi di Morcar (Wizards of Morcar, 1991), The Frozen Horror (Barbarian Quest Pack, 1992), The Mage of the Mirror (Elf Quest Pack, 1992), HeroQuest: Le nuove imprese - La Compagnia della Morte (Heroquest: Advanced Quest - The Dark Company, 1992).
Oltre a un HeroQuest Adventure Design Kit per crearsi da soli le imprese. Alcune di queste espansioni escono solo in Europa, altre solo negli USA, per complicare le cose a chi vorrà un giorno comprarle tutte. Ne hai giocate un paio in seguito, durante gli anni dell'università, ma non riesci a ricordare quali. E vabbè.

Nel '91 arriva anche una versione più complessa del gioco base, Advanced HeroQuest, con un regolamento più articolato e una mappa modulare. Segue a ruota l'espansione Terror In The Dark. Nel '95, il posto di HeroQuest e Advanced HeroQuest verrà preso da Warhammer Quest, appunto ambientato nel mondo di Warhammer e rimasto in produzione fino al '98.

C'era anche il videogioco di HeroQuest, sfornato da Gremlin Interactive nel '91 per Amiga e diversi altri home computer dell'epoca (ce l'aveva Fedo!! n.d.r.). Le partite non sfuggivano all'occhio vigile di un Lando Buzzanca capellone malvagio. Ne furono pubblicati anche un'espansione, HeroQuest: Return of the Witch Lord, e un seguito, HeroQuest II: Legacy of Sorasil (Amiga 1200 e CD32, 1994).


Tornando al gioco da tavolo, sai che ci sono stati vari tentativi di riportare in pista HeroQuest, come la brutta fazenda del crowdfunding per l'edizione 25° anniversario, ma questo è il racconto di quei giochi MB e di quegli anni lì (rima). E bisogna passare al cugino venuto dallo spazio.

All'altro Warhammer, la declinazione sci-fi Warhammer 40,000, è legato invece il secondo gioco di Stephen Baker per MB, StarQuest. Uscito nel '90, era a tutti gli effetti un mod fantascienzo di HeroQuest, con l'Alieno come master e il relitto dell'astronave a fare da dungeon per mettere alle strette gli space marine guidati dagli altri giocatori. Alla fine è una versione molto semplificata di Space Hulk e Warhammer 40,000 di Games Workshop, ma ai tempi lo trovi la cosa più bella del mondo.


Il marine dello spazio con la Power Armour bianca sulla scatola, dipinto da David Sque, diventa all'istante una delle prime cose che ti vengono in mente quando pensi ai soldati del futuro. Subito dopo i marine di Aliens, certo. Vorresti tanto sapere che fine abbia fatto la tua scatola di StarQuest, ma i traslochi sono master feroci e senza scrupoli, che spesso non fanno prigionieri.

Di StarQuest, che in molti altri paesi era chiamato Space Crusade, uscirono due box di espansione: L'attacco degli Eldar (Eldar Attack), con i suoi guerrieri esper, e Missione: Dreadnought (Mission Dreadnought). Anche qui c'era una versione con tabellone modulare, Advanced Space Crusade, e la storia è andata avanti in vari modi. Ad esempio con Tyranid Attack, sostanzialmente un Advanced Space Crusade senza la licenza MB prodotto da Games Workshop nel '93.
E pure qua c'era un videogioco della Gremlin, giocato anch'esso fino alla nausea: Space Crusade (1992), con la sua brava espansione The Voyage Beyond.

Il terzo titolo prodotto da MB in collaborazione con Games Workshop in quegli anni è un altro gioco a cui ti lega una fiumara di ricordi che quando si gonfia per la pioggia ti porta via. Sempre Stephen Baker, che anni dopo avrebbe partecipato alla creazione di Heroscape, inventa questa versione molto semplificata di Warhammer: Battle Masters (1992). Su un grande tappeto di plastica, un quadrato da un metro e mezzo per lato diviso in esagoni, si danno battaglia le forze dell'Impero e quelle del Caos. Con un torre di plastica e una quantità enorme di miniature.


Battle Masters diventa il gioco preferito per te e tuo fratello, quando non siete attaccati all'Amiga. Tu prendi sempre i cattivi, il Campione degli Ogre lo chiami Bud e gli Orchi fanno macello dei cavalieri imperiali. Ma quei dannati Cavalcatori di Lupi si staccano dalla basetta e cascano ogni tre secondi. Prima o poi devo incollarli, ti ripeti. E te lo ripeti per settimane, ma non lo fai mai.

Anche di Battle Masters - che in Germania è Die Claymore-Saga, nei Paesi Bassi Ridderstrijd e in Francia un ovviamente risibile Seigneurs de guerre - sono uscite due espansioni, che si limitavano ad aggiungere delle nuove unità ai due schieramenti, senza nuove carte battaglia: I Lord Imperiali e I Predatori del Caos. Che fine abbia fatto Battle Masters lo sai, perché tuo padre un giorno lo ha gettato via. L'avevate lasciato nel lato sbagliato del ripostiglio, quello con le cose da sgombrare. Gettato via, un gioco che ora varrebbe centinaia di euro (nuovo, su Amazon, lo danno via alla modica cifra di ottocentoROTL carte). Quando l'hai scoperto, non hai pianto. Beh, non troppo,


Era del resto ormai il '94, ed erano passati quegli altri mondiali. Quelli in cui Michel Preud'homme si era portato a casa il premio di miglior portiere della competizione, nonostante le tre pere rimediate da Klinsmann e compagni agli ottavi. Succede.