lunedì 14 aprile 2025

Alternative al combattimento


Sempre dal blog Dietro lo schermo un altro interessante articolo sul basso power level e l'alta mortalità nell'OSR.

Il principio

Non bilanciare le sfide. Il Diemme non deve curarsi di rendere i nemici o i pericoli “equilibrati” rispetto ai PG, e i giocatori devono essere consapevoli di questo.

Più in generale, la morte dovrebbe essere un’eventualità concretamente possibile ogni volta che si intraprende un atto rischioso. Il Diemme non deve mai sforzarsi di evitare che accada e, se accade, dovrebbe essere perlopiù definitiva.

In Principia Apocrypha (uno dei testi di riferimento della Rinascita della Vecchia Scuola) si legge:

Il tuo personaggio potrebbe essere trasformato in rospo, perdere parti del corpo, essere contagiato dalla lebbra, trasformato in pietra, affetto da una maledizione che fa sputare lumache, sepolto nelle viscere della terra per diecimila anni, o semplicemente ucciso da un contadino con un colpo di forcone nelle budella. Impara ad amare i modi repellenti, orripilanti, scioccanti, sorprendenti e anche irritanti in cui i personaggi possono assaporare la sconfitta.

Una chiara differenza di approccio rispetto al D&D moderno, pieno di “eroi cinematografici”, non è vero?

La storia che c’è dietro

Ai primordi di D&D i dungeon (quantomeno, certi dungeon) erano essenzialmente delle immense trappole mortali: una lunga sequenza di modi per cercare di “fregare” e uccidere i PG. Lo erano a tal punto che, talvolta, non ci si preoccupava neppure troppo che avessero una logica (com’è arrivato lì quel mostro? che senso ha una trappola fatta così?). Era una corsa a ostacoli: l’obiettivo era arrivare al tesoro senza restarci secchi.

L’esempio forse più lampante è il celebre Tomb of Horrors, dungeon che il creatore di D&D Gary Gygax, negli anni ’70, aveva creato appositamente come “sfida estrema” per i giocatori più esperti. È concepito con assoluto sadismo, con la morte che può colpire i PG da mille direzioni inaspettate al minimo passo falso. I risultati spesso sono molto spassosi… tranne che per la vittima.

Anche senza arrivare a tali estremi, nel D&D “di una volta” era comune che un personaggio morisse, anche in modo improvviso, per un singolo errore o per pura sfortuna. Queste morti snervanti diventarono, in breve, un cliché tra gli appassionati. Il fatto che creare un nuovo personaggio fosse un’operazione semplice e rapidissima (si ripartiva rigorosamente dal 1° livello e non c’erano talenti, abilità o altre opzioni speciali da scegliere) contribuiva a mitigare la “durezza” dell’evento. E all’epoca non ci si affezionava troppo al proprio PG… se non quando si era riusciti a farlo sopravvivere a una moltitudine di pericoli, portandolo ad un alto livello. In effetti i personaggi di alto livello erano “preziosi” e molto amati proprio perché era molto difficile farli restare vivi fino a quel punto, quindi avevano più che “meritato” il loro status.

I pregi

In un gioco in cui la morte è sempre in agguato c’è più tensione, diranno i sostenitori di questo stile. Ed è innegabile: la consapevolezza di essere in pericolo tiene tutti sul chi vive.

Il fatto di non bilanciare gli scontri può essere un pregio per varie ragioni. Innanzitutto il Diemme risparmia un po’ di lavoro. In secondo luogo aumenta il “realismo” (se di realismo si può parlare in un GdR fantasy), rendendo possibile incontrare nemici di qualunque livello, a prescindere dal livello dei personaggi; diciamo che quantomeno aumenta l’imprevedibilità e i colpi di scena.

Ma soprattutto, l’alta letalità del combattimento induce i giocatori a prenderlo sul serio: come, appunto, una questione di vita e di morte, non uno “sport”. Incoraggia l’attenta preparazione prima di ogni battaglia, e l’uso di buone strategie per minimizzare i rischi.

Inoltre, in combinazione con il sistema “oro = PE” che abbiamo visto nell’episodio scorso, induce i PG a cercare alternative al combattimento ogni volta che è possibile, tenendolo come ultima risorsa. Il che è una bella cosa perché fa lavorare il cervello; evita che i PG si trasformino in macellai, e i dungeon in una noiosa sequenza di tiri per colpire e danni.

Aggiungerò un’altra cosa: l’alta letalità induce a uno scarso attaccamento dei giocatori ai loro PG, almeno all’inizio. So che vi stupirà trovarla tra i pregi: dovrebbe essere un difetto, giusto? Sì e no. È vero che la Vecchia Scuola difettava di profondità narrativa, e questo non potrò mai vederlo come un bene; troppo poco attaccamento non è una cosa positiva.

Ma è anche vero che molti giocatori, oggi, tendono ad avere un po’ troppo attaccamento. Soprattutto, molti partono con l’idea di dover creare un PG già dotato di una profondità narrativa enorme, e di mille qualità (a cominciare da razza e background) che lo rendano assolutamente unico e speciale. Comprendo, quindi, chi vede nell’approccio “Vecchia Scuola” un modo per mitigare queste manie di protagonismo, insegnando ai giocatori che l’unicità e la profondità del personaggio, come pure l’attaccamento per lui, dovrebbero svilupparsi durante il gioco e in conseguenza del gioco, non al tempo zero. È tuttavia un modo un po’ drastico di trasmettere questo insegnamento, lo riconosco.

I limiti

L’alta letalità ha i suoi problemi, e non è un caso che con l’evoluzione di D&D sia stata progressivamente abbandonata.

Primo, se si muore troppo spesso o troppo facilmente, è difficile che la morte venga presa sul serio. È più facile che i giocatori riducano al minimo l’attaccamento al loro personaggio (vedi sopra) e di fronte alla sua ennesima morte inizino a fare spallucce.

Non è per forza così, naturalmente: Principia Apocrypha dice “non preoccupatevi se i giocatori non sono affezionati ai personaggi, lo diventeranno dopo aver avuto qualcosa da perdere”, implicando che l’attaccamento sia qualcosa che si sviluppa con il tempo. In teoria è saggio. Ma in pratica? Una volta che ciò sarà avvenuto, il gioco non diventerà meno letale, quindi l’attaccamento renderà solo la morte del personaggio più snervante: è chiaro che la cosa diventa un disincentivo.

Soprattutto, la letalità stessa viene smitizzata: ci si aspetta che tutto sia letale, quindi non si rimane sorpresi quando qualcosa lo è.

Il fatto di non bilanciare gli scontri e i pericoli è comodo per i Diemme pigri e per quelli che vogliono farsi un vanto del loro preteso realismo, ma diventa rapidamente frustrante per i giocatori, che si sentono in balia degli eventi. Nel senso, se il nemico è enormemente più forte e li vuole morti, dovrebbe riuscire a ucciderli, qualunque cosa facciano, giusto? Quello sarebbe il vero realismo. Ma mancherebbe l’agency, la responsabilità di scelta dei giocatori.

Lo stesso Principia Apocrypha incoraggia il Diemme a far capire chiaramente ai giocatori, attraverso le descrizioni, quando un nemico è molto forte, e a lasciare sempre loro la possibilità di evitare un combattimento, se vogliono. Questo mitiga un po’ il problema, ma lascia anche il tempo che trova. Il mondo è pieno di sfide pericolosissime da cui si può stare alla larga. Se ci si limita a questo è poco divertente, no?

Ok, ci possono e ci devono essere altri modi (diversi dal combattere) per risolvere i problemi. Però il combattimento, nel moderno D&D, è divertente. Le nuove edizioni lo hanno arricchito con opzioni di ogni genere proprio per renderlo più bello e più vario. Non è bene che un giocatore ricerchi la battaglia fine a se stessa, divertendosi a massacrare senza criterio; ma molti giocatori si divertono a giocare uno scontro, e se ci sono le giuste motivazioni per metterlo in scena, perché negarselo?

L’alta letalità porta facilmente a un comportamento chiamato, in gergo, turtling: si ha quando i PG sono così timorosi e diffidenti verso tutto ciò che incontrano da adottare un comportamento super-cauto e super-prudente, ai limiti della paranoia. Che può essere ottimo dal punto di vista strategico, ma alla lunga non è divertente.

Infine, l’alta letalità può ostacolare la costruzione di una storiaabbiamo visto in questo blog che la storia richiede un obiettivo che i PG siano motivati a raggiungere. A meno che l’obiettivo non sia sempre noioso e banale come “recuperare il tesoro sepolto in questo dungeon” (che fa molto “Vecchia Scuola”, per carità), se i PG cambiano continuamente a causa dell’eccesso di mortalità diventa difficile motivare adeguatamente i loro rimpiazzi.

In conclusione

Penso che ogni Diemme e ogni gruppo abbia un proprio “livello ottimale” di rischio di morte. Se è troppo basso la tensione si dissolve, come pure il piacere della vittoria (che sembra troppo a portata di mano e quindi immeritata), ma se è troppo alto l’esasperazione, la paranoia e il mero sforzo di sopravvivere schiacciano la storia.

Personalmente non sono un fan dell’alta letalità. Questo non significa che la morte dei PG non sia possibile nelle mie avventure: lo è, eccome. Significa però che, là dove mi aspetto che un combattimento sia tra le opzioni considerate per superare una sfida, generalmente lo bilancio secondo le regole.

Esistono anche situazioni in cui i miei PG si trovano di fronte avversari decisamente oltre la loro portata: è successo due volte di recente, con un gruppo di 2° livello di fronte a un drago nero, e con un gruppo di 1° livello di fronte a un diavolo d’ossa. Queste situazioni però sono l’eccezione e sono attentamente “preparate” dalla storia che le precede, in modo che i giocatori sappiano con cosa hanno a che fare. Inoltre mi assicuro che ci sia comunque un modo (possibilmente più di un modo) di superare la sfida con profitto.

Come ho scritto in un altro articolo, la soluzione migliore per me è progettare avventure in cui la sconfitta non coincida necessariamente con la morte: a quel punto si possono aumentare le probabilità di quella sconfitta per aumentare la tensione, senza che questo porti a una strage di personaggi. Chiedersi “ce la farò a risolvere il problema?” è, per i giocatori, una domanda drammatica altrettanto emozionante, se non più emozionante, rispetto al banale “ce la farò a sopravvivere?”.

2 commenti:

Alfar Ellevild ha detto...

Giusto uno scrupolo, sul copiare integralmente l'articolo di un altro blog. Forse meglio un link, qualche citazione interessante e un commento. Vedi qui: https://dietroschermo.wordpress.com/infocontatti/copyright/

Anonimo ha detto...

Scusami, questo è un blog seguito da 5 persone nato per tenere traccia delle nostre sessioni. Sono solito citare sempre la fonte (in link nella descrizione all'inizio). Se pensi abbia violato qualche tuo diritto posso tranquillamente rimuoverlo (ma ho trovato i tuoi articoli particolarmente interessanti e li ho "rimbalzati" qui, piuttosto che in una sterile chat di qualsiasi sterile social...).