Proseguimento dell'articolo nel post precedente. Se siete pigri andate direttamente alla bottom line per il riassunto.
L’altro approccio
L’altro approccio per avere la storia appassionante in un gioco tradizionale è rinunciare a raccontare la storia appagante, e lasciare che una qualche storia si crei da sola come fenomeno emergente.
I sistemi tradizionali hanno regole strutturate in modo più o meno esplicitamente simulativo. Con questo intendo dire che le regole, piuttosto che cercare di riprodurre una certa struttura narrativa, si prefiggono solo di rappresentare in modo coerente la realtà del gioco – una realtà di gioco che può essere anche molto diversa dalla nostra. Ecco, in questi giochi l’approccio più naturale è usare le regole per lo scopo per cui sono state create – simulare una certa realtà fittizia – e fermarsi lì. Il DM abbandona l’idea di intervenire sulla storia, spingendola in una direzione piuttosto che in un’altra, e lascia che questa emerga naturalmente dalla realtà fittizia creata dalle regole e dalle azioni dei giocatori.
Come funziona in pratica? In questo tipo di gioco, il GM delinea un ambiente o una situazione, magari offrendo alcuni spunti per avventure e/o luoghi da esplorare; i giocatori poi possono fare quello che vogliono e decidere le proprie avventure. Sono i giocatori il motore di quello che succede – il GM ha un ruolo passivo, e si limita a reagire alle scelte dei giocatori; il suo compito è semplicemente quello di realizzare in gioco le conseguenze delle loro azioni (di solito improvvisando). Questo tipo di gioco è noto anche come SANDBOX.
L’esempio più antico di questo tipo di gioco è l’hexcrawl, un tipo di campagna di esplorazione pura molto popolare negli anni ’70 e primi anni ’80, e ritornata di recente in voga grazie all’OSR. Un tipo di campagna più “story-oriented” potrebbe essere creato elaborando situazioni in cui ci sono fazioni, forze e/o png con motivazioni, obiettivi e interessi in conflitto tra loro e con quelli dei personaggi, di modo da creare una rete più o meno complessa di relazioni. I personaggi, con le loro azioni, andranno ad influenzare una o più di queste relazioni, provocando delle reazioni. Il resto si evolverà naturalmente.
Chi è interessato alle campagne sandbox probabilmente vorrà dare un’occhiata ai giochi della Sine Nomine Publishing, specialmente Stars Without Number che è gratuito. Contengono ottimi suggerimenti e strumenti per creare campagne di questo tipo, che sono un po’ il marchio di fabbrica della SNP.
Qual è lo svantaggio della campagna sandbox? Sicuramente che è pesante per il GM, che deve passare un certo tempo a prepararsi prima delle sessioni, e soprattutto essere bravo a improvvisare; e poi che richiede ovviamente giocatori proattivi. Dal punto di vista dell’ottenimento di una storia drammaticamente appagante, lo svantaggio della campagna sandbox rispetto al gioco tradizionale è che è inaffidabile. Sicuramente si verrà a creare una qualche storia, ma non è detto sia appassionante – e lo dico per esperienza. Se lasciate veramente libertà ai giocatori, è possibilissimo che emerga naturalmente una storia appassionante (nata dall’improvvisazione), ma questa sarà il risultato di uno o tutti questi fattori 1) un bravo GM; 2) bravi giocatori 3) il caso. In una sandbox autentica può venire fuori la storia emozionante, ma può anche venire fuori una storia mediocre dal punto di vista drammatico, o addirittura una storia che si interrompe in modo anticlimatico (esempio: total party kill intempestivo ad opera di mostri insignificanti). Inoltre, la storia emergerà a posteriori – dopo la sessione, ci guarderemo indietro e ricostruiremo una trama.
Naturalmente, una campagna sandbox può essere comunque divertente anche senza la storia emozionante – dipende da quali elementi i vostri giocatori traggono il loro divertimento. E, dal mio punto di vista, uno dei take home messages di questo articolo è un po’ questo: non avete necessariamente bisogno della storia appassionante per divertirvi. C’è stata, negli anni, una tendenza a far credere ai giocatori che il buon gdr produce necessariamente la bella storia, ma non è così. Il gdr può essere divertente e ben riuscito anche quando la storia è di per sé deludente. E come sempre, finché la gente si diverte, va tutto bene.
Una cosa che vorrei chiarire è che la stragrande maggioranza delle campagne adottano in realtà un approccio ibrido tra i due che ho presentato. Cioè, pochissime campagne sono o del tutto sandbox, o del tutto composte da una storia completamente pianificata. Le campagne che la gente gioca nella vita reale spesso presentano elementi di entrambi gli approcci, anche se solitamente uno dei due prevale sull’altro. Vale a dire: alcune campagne sono tendenzialmente sandbox, altre tendenzialmente storia-predeterminata. Molte campagne possono oscillare tra questi due poli nel corso del gioco; per esempio, nel corso degli anni diverse mie campagne sono partite con un abbozzo di storia predeterminata (in pratica, un aggancio per l’avventura, seguito da quello che, a grandi linee, mi aspettavo che sarebbe successo); ma quando i giocatori si sono allontanati da ciò che mi aspettavo, o comunque quando hanno cambiato le carte in tavola con le loro azioni, queste campagne sono ben presto deviate verso il sanbox: a quel punto ho iniziato ad improvvisare e far reagire PNG/fazioni/mostri/l’ambientazione in maniera coerente rispetto alle azioni dei giocatori, abbandonando qualunque idea avessi circa lo sviluppo della campagna.
I giochi non tradizionali e il motivo per cui hanno tutte quelle regole bislacche
Abbiamo visto che in un gioco di ruolo tradizionale ci sono due modi fondamentali per avere una storia appassionante. Uno è avere la storia appassionante già scritta, che per definizione è un sistema molto affidabile (è già scritta!). Tuttavia, questo approccio ha dei grossi problemi, e di fatto può essere mantenuto solo utilizzando strategie spesso non desiderate dai giocatori. Più raramente (almeno nella mia esperienza) i giocatori richiedono la presenza di una storia già scritta, ed accettano che il DM faccia il possibile per mantenerla: in quest’ultimo caso, finché tutti si divertono e sono d’accordo, va tutto bene. L’approccio concettualmente opposto è dare completa libertà d’azione ai giocatori, e lasciare che la storia si crei da sola in modo naturale. Questo approccio mantiene la libertà dei giocatori e tende a risultare più accettabile. Tuttavia, non funziona molto bene con giocatori passivi ed ha, tra le altre cose, il grosso svantaggio di non essere in grado di produrre affidabilmente una storia appassionante. A volte si creerà, a volte no. So it goes.
Proseguiamo adesso con la nostra storia.
La nuova enfasi sulla storia si diffuse rapidamente anche al di là di D&D: nel 1991, due anni dopo AD&D 2e, sarebbe stato pubblicato Vampire: The Masquerade, forse il gioco più iconico degli anni ’90. Vampire, almeno in teoria, era un gioco che si compiaceva del proprio focus sulla storia, sulla narrazione, sull’intrigo, e sull’introspezione personale – autodefinendosi “a game of personal horror” (in it. “un gioco di intimo orrore“).
Gli anni ’90 passano. Vampire: the Masquerade è giocatissimo. AD&D 2e sforna degli storici Campaign Settings piuttosto focalizzati sull’elemento storia (vedi Planescape). I videogame di Final Fantasy, caratterizzati da storie complesse e coinvolgenti, si diffondono rapidamente in occidente. Insomma, tutti vogliono storia, storia, storia. Negli anni ’90 si inizia anche a sperimentare – per esempio, nel 1991 esce Amber Diceless, il primo gioco di ruolo a non utilizzare dadi; nel 1999 uscirà Nobilis, altro gioco diceless piuttosto, uh, cerebrale (i giocatori interpretano concetti astratti personificati. No, davvero. …WTF?!). Gli anni ’90 sono però anche un periodo di profonda crisi per il gdr cartaceo, minacciato dal diffondersi dei giochi per computer, sempre più elaborati, e dal successo dei giochi di carte collezionabili (come Magic: The Gathering). C’è un’aria tesa nell’industria dei gdr, costretta ad assecondare i capricci del mercato e inventarsele di tutte pur di rimanere a galla: gli anni ’90 sono anche il decennio degli splatbooks.
Arriviamo quindi alla fine degli anni ’90, e facciamo la conoscenza di Ron Edwards, PhD. Edwards era un insegnante di biologia e dottorando all’Università della Florida, e nel tempo libero scriveva giochi di ruolo. L’intero movimento legato ai giochi “indie” (indipendenti) come lo conosciamo oggi nacque perché Edwards divenne disilluso nei confronti dell’industria editoriale commerciale per diverse ragioni. I contratti tra autori e case editrici tendevano a dare molto controllo sul prodotto alla casa editrice – per esempio, la casa editrice poteva decidere unilateralmente di produrre una nuova edizione di un gioco, che l’autore fosse d’accordo o no. Tanto per parlare di un gioco che tutti conosciamo, D&D è ora alla sua quinta edizione. Ecco, se domani la WotC decidesse di pubblicare la sesta edizione di D&D, e Mike Mearls non fosse d’accordo, non sarebbe certo lui ad avere l’ultima parola. “Indie”, quindi, significa solo questo: giochi che sono autopubblicati, in modo tale che l’autore mantenga il controllo sul proprio prodotto.
Spinto dalla propria insoddisfazione, più o meno nel 1999 Edwards avviò un sito dedicato ai giochi pubblicati da autori indipendenti, che allora non erano molti. Quel sito qualche tempo dopo (nel 2001) sarebbe stato ribattezzato The Forge. Su quel sito poteva discutere chi era interessato ai giochi indie (autori o meno), e tra le altre cose si parlava anche di teoria e game design. È in questo contesto che Edwards avrebbe sviluppato la Teoria GNS, che più tardi sarebbe stata incorporata in un framework teorico più ampio, il Big Model. L’articolo di Edwards comunque è comprensibile anche senza sapere niente di teoria GNS. In pratica, il nocciolo della sua argomentazione (spiegato con parole mie) è che la gente, in un gdr, trae il proprio divertimento attraverso la soddisfazione di “appetiti” diversi, che non sempre sono compatibili tra loro. Un gioco di ruolo progettato per assecondare un appetito specifico è meglio di un gioco che tenta di soddisfarli tutti, o che è progettato senza una chiara idea di quale appetito stia cercando di soddisfare. Questo perché il gioco che tenta di soddisfarli tutti non ne soddisferà pienamente nessuno: ogni tipo di giocatore troverà qualcosa del sistema che gli piace, ma anche qualcosa che lo disturba. Invece, il gioco che tenta di soddisfare un tipo specifico di appetito soddisferà una sola tipologia di giocatore, ma almeno la soddisferà pienamente. Edwards nell’articolo individua tre forme principali di appetito autoescludentisi, o “creative agendas” (intenti creativi) nel gergo forgita: gamista (= il gdr visto come esperienza di gioco, in cui il divertimento consiste nel superare delle sfide), simulazionista (= il gdr visto come strumento per esplorare una particolare realtà o un genere), e narrativista (= il gdr visto come occasione per raccontare una storia, anche se in realtà questa definizione è imprecisa). Si può essere o meno d’accordo con questa visione delle cose; comunque l’articolo è ben argomentato ed è molto interessante, per cui consiglio di leggerlo con una mentalità aperta, a prescindere dalle proprie idee. Per quanto riguarda me, sono d’accordo in linea generale su alcune argomentazioni (es. che il sistema è importante per favorire una certa esperienza di gioco), ma meno su altre (es. che questi intenti si escludano tra loro).
Sia come sia, Edwards non ha mai fatto mistero di essere uno che giocava per raccontare una storia, e di essere insoddisfatto dei giochi che promettevano ai giocatori la capacità di raccontare grandi storie, senza che il regolamento facilitasse questo compito. Ecco perché molte persone che hanno abbracciato la visione forgita odiano Vampire: The Masquerade e, in minor misura, AD&D 2e. Erano due giochi molto popolari che promettevano grandi storie, ma non mantenevano le loro promesse. Ed ecco perché i designer associati a The Forge tentarono di rimediare a questa mancanza con giochi dalle regole non convenzionali, concepite per facilitare la creazione di specifiche storie, strutturate in modo preciso. Gli individui collegati a vario titolo a The Forge furono quindi il secondo gruppo di persone che giunse ad odiare la nuova attenzione alla storia dei gdr tradizionali, poiché vissero il tutto come una menzogna o una promessa non mantenuta. (Il primo, ricordiamolo, sono i grognard old school, che hanno visto questa attenzione alla storia come un tradimento dello spirito originale del gioco.)
(Tra parentesi: notare che Edwards e compagnia bella non sostenevano che fosse impossibile raccontare una storia con i giochi tradizionali, tutt’altro – si lamentavano però che il regolamento non facilitasse od ostacolasse questo compito) (altra parentesi: dovrei precisare che la storia come la intende Edwards è diversa dalla storia come l’ho definita io un po’ di righe fa – Edwards ha una sua definizione particolare di cosa costituisce una storia nell’ambito di un gioco narrativista, che è molto più restrittiva della mia definizione).
Dicevamo. I frequentatori della Forgia furono molto influenzati dalle idee di Edwards, e iniziarono a progettare giochi seguendo la stessa logica. Dato che la stragrande degli utenti del forum giocavano per raccontare storie, i giochi che vennero prodotti erano molto focalizzati sulla storia, e vennero associati a quello stile. Con il tempo, gioco indie divenne (impropriamente) sinonimo di “gioco non tradizionale fatto per raccontare storie”. In realtà gioco indie vuol dire semplicemente gioco di ruolo autopubblicato in cui l’autore mantiene il controllo della propria creazione. Stop. I giochi sfornati dalla forgia erano anche indie, ma non tutti i giochi indie sono forgiti o narrativisti. [...] La definizione probabilmente più corretta per questi giochi è “non-tradizionali”, il che li contrappone ai giochi “tradizionali”. Si caratterizzano infatti per meccaniche non convenzionali, più o meno sperimentali, che scardinano alcuni degli assunti dei giochi tradizionali – es. dando maggiore controllo narrativo ai giocatori, progettando meccaniche senza logiche simulative, eliminando parti del gioco considerate fondamentali nel gdr tradizionale (come la presenza di un GM), etc. etc.
Alcuni (tra cui me!) tendono a non amare molto questo tipo di meccaniche, perché possono spezzare l’immersione nel gioco (parlo soprattutto delle meccaniche che forniscono controllo narrativo al giocatore). [...] Penso tuttavia che l’esistenza di The Forge sia stata utile perché:
1) ha catalizzato la creazione di un sacco di giochi innovativi. Alcuni mi piacciono, altri no, altri mi lasciano indifferente. Ma va bene: non sono giochi che magari sono interessato a giocare personalmente, ma sono contento che esistano. Sono contento se rispondono agli appetiti di qualcuno. E comunque alcune idee nate da questi giochi hanno contribuito ad innovare anche nell’ambito dei giochi tradizionali.
2) hanno promosso la creazione di giochi che servivano un tipo di giocatore fino a quel momento bistrattato dall’industria – il giocatore che giocava per la storia. Sono dell’opinione che ci siano giochi adatti e giochi meno adatti alle preferenze delle singole persone. Sono contento di vedere giocatori soddisfatti con i giochi non tradizionali, piuttosto che vederli lamentarsi sui forum perché non riescono a ottenere quello che vogliono con D&D o PF o che ne so. Ognuno fa i suoi giochi in pace, e tutti siamo felici. Win-win.
3) ha spinto all’autoriflessione e all’autocritica su un sacco di temi (l’autorità del DM, rapporti disfunzionali tra giocatori, la necessità di riconoscere le motivazioni delle persone, etc), e penso che da questa riflessione e autocritica ne abbia tratto beneficio anche il gioco tradizionale.
A partire dalla metà degli anni ’80, il gioco di ruolo si allontana dalle proprie radici introducendo l’idea di giocare per raccontare una storia. Dal punto di vista della storia, le campagne giocate con giochi tradizionali sono tipicamente comprese all’interno di uno spettro: ad un estremo dello spettro troviamo la campagna con la storia predeterminata che sarà seguita durante il gioco effettivo; all’altro estremo troviamo la campagna priva di qualunque storia predeterminata, che invece emerge naturalmente, sul momento, durante il gioco. Entrambi questi approcci hanno pro e contro, e in linea di massima nessuno dei due è intrinsecamente sbagliato, purché i giocatori diano il proprio consenso informato e si divertano; tuttavia, l’approccio “storia predeterminata” è spesso imposto a giocatori che non lo desiderano, e come tale è generalmente malvisto. Alla fine degli anni ’90 iniziano ad emergere giochi non-tradizionali, che adottano un approccio nuovo: le loro meccaniche facilitano in vario modo la creazione di storie. Questi giochi esplodono anche grazie a The Forge, una community ora defunta che fece da punto di raccolta per autori e giocatori insoddisfatti del proprio gioco. Parecchie idee nate nel contesto della Forgia hanno influenzato lo sviluppo di molti giochi recenti, per altri versi tradizionali, e hanno cambiato la cultura dei gdr in generale.
Qual è il take-home message?
- Non tutti i giocatori hanno necessariamente bisogno di una storia appassionante per divertirsi, che è un’idea che non è sempre stata intrinseca al gioco di ruolo (vedi il sandbox play, che generalmente è divertente pur essendo incapace di produrre affidabilmente storie degne di nota).
- Ai vostri giocatori potrebbe andare bene di giocare una storia predeterminata, e potrebbero anche accettare un po’ di railroading pur di rimanere sui binari; però non datelo per scontato! Prima di farlo, parlate con loro e chiarite le vostre aspettative reciproche. In caso di dubbio, l’approccio più safe è rinunciare alla propria storia predeterminata per non annullare la libertà d’azione dei vostri giocatori, e far reagire l’ambientazione alle loro scelte.
- Più o meno è la stessa roba per barare – ai vostri giocatori potrebbe andare bene che il DM modifichi i tiri di nascosto per esigenze di storia, ma potrebbero anche non gradire l’idea. Prima di farlo, parlatene con loro. Se non vogliono, trovate un’altra soluzione.
5 commenti:
Letto velocemente il nuovo post. Ho una riflessione a proposito del fatto che se i giocatori al tavolo sono passivi, oppure per altri motivi, la storia al tavolo potrebbe essere deludente o meno...
La riflessione è questa: è solo responsabilità del master rendere divertente e appagante la sessione ??? Oppure è una responsabilità condivisa al tavolo?
La figura del master è diventata quella di un master-intrattenitore, mentre una volta si parlava di "arbitro" (ogni tanto anche di facilitatore). Se la sessione è deludente di solito si dà la colpa al master così come si fanno i complimenti se la vicenda è appassionante. Voi cosa ne pensate della figura del master? Che aspettative avete?
Altra provocazione: se due fazioni hanno due obbiettivi belli carichi a livello di implicazioni e anche spettacolarità, siamo sicuri che la storia emergente sia deludente? Ci sono avventure sandbox oriente che pur lasciando tanto margine hanno un'impalcatura che permette comunque una bella storia a prescindere (tipo l'avventura che ho girato a Franzo, ma niente spoiler se non non ce la fa giocare. Nemmeno io l'ho letta ma ne ho sentito tessere le lodi).
Il mio ragionamento comunque vale anche per d&d 5e naturalmente, non è solo appannaggio del mondo oso: ad esempio la guida del GM pigro mi sembra che abbia tanti punti in comune con questo mio ragionamento, inoltre sostiene che al prep da fare sia in realtà poca (se ben ricordo).
Immagino che dipenda da come il gruppo intende il gioco. Se l'idea è quella della storia pilotata dal master, maggior responsabilità (o gloria) ricadrà sul master.
Se si cerca la storia come risultato non preconfezionato delle idee di tutti, direi che la responsabilità ne consegue. Io aspirerei alla seconda.
Alla fine mi pare che l'autore arrivi proprio a questa conclusione: chiarisciti a cosa vuoi giocare e poi scegli il sistema di gioco migliore. Ovvio che la responsabilità finale poi è di tutti, indipendentemente dall'assecondare o meno la storia: cioè, se il master mi costruisce delle belle situazioni + fazioni (l'ho sperimentato col gruppo di san Piero), poi i giocatori dovrebbero assecondare/approfondire certe piste/indizi, altrimenti non si crea nulla se non una serie di incontri più o meno fighi e più o meno vagamente riguardanti l'ambientazione generale (motivo per cui ho smesso).
Per questo trovo necessaria una Dichiarazione d'intenti, altrimenti magari tutti si impegnano ma a modo loro, e non è detto venga fuori qualcosa di coinvolgente...
Esatto, stavo arrivando a quel discorso lì, la dichiarazione d'intenti.
Che comunque, nella maggior parte dei casi, costringerà ciascuno a compromessi sullo stile "ideale" che ha in testa. Però almeno è palese e difficilmente si avranno contestazioni in corso d'avventura!
Posta un commento